Dove si studia design, moda e arti visive
In Italia, se vuoi studiare queste cose hai due grandi strade davanti: l’università oppure l’AFAM, che è l’Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica. Sembra una sigla complicata, ma in pratica parliamo di accademie di belle arti, ISIA, conservatori e scuole che si muovono su binari paralleli a quelli universitari. I titoli che rilasciano valgono allo stesso modo. Cambia lo stile di insegnamento, cambiano i laboratori, cambia anche il tipo di mentalità che ci si costruisce.
Le università come il Politecnico di Milano, quello di Torino, lo IUAV di Venezia o la Libera Università di Bolzano propongono corsi di design che mescolano creatività e metodo. Progettazione, software, user experience, sostenibilità: si lavora molto su progetti concreti, spesso legati a problemi reali. C’è chi finisce a collaborare con aziende già durante il percorso.
Le accademie statali o riconosciute, insieme agli ISIA, sono invece più sbilanciate sull’aspetto artistico. Si lavora tantissimo con le mani, con i materiali, con il corpo e lo spazio. Si fa laboratorio, si sperimenta, si parte da un’intuizione e la si fa crescere. Sono ambienti dove spesso si respira un’aria più libera, a volte più caotica, ma molto viva.
E poi ci sono tante scuole riconosciute (come IED, NABA, IAAD e altre), che mescolano creatività, spirito imprenditoriale e un contatto diretto col mondo del lavoro. Alcune sono molto internazionali, altre legate a contesti locali. Ma tutte puntano a costruire figure che possano muoversi da subito in contesti professionali.
Fuori dall’Italia, il panorama si allarga ancora di più. Ci sono scuole come Central Saint Martins a Londra, Parsons e il Fashion Institute of Technology a New York, la Design Academy Eindhoven, l’Aalto University in Finlandia. Molte di queste richiedono un portfolio già per entrare. In genere si lavora a progetti fin dall’inizio e si entra in contatto con il mondo del lavoro molto presto. Il Politecnico di Milano, comunque, tiene il passo: è tra le migliori università al mondo per il design.
E dopo? Che lavoro si fa
Una volta usciti da questi percorsi, ci si trova in un mondo dove le etichette contano poco. Il lavoro spesso non si chiama più “designer” e basta. C’è chi fa UX/UI design per app e siti, chi lavora nel product design per aziende di arredamento o automotive, chi si occupa di moda, grafica, packaging, fotografia, installazioni multimediali o artigianato digitale. E la lista potrebbe continuare ancora.
Il punto è che il design oggi non è solo disegnare: è capire, osservare, risolvere. È un lavoro sempre più trasversale, in cui serve mescolare sensibilità estetica, strumenti tecnici e soprattutto tanta curiosità. Il confine con altri mondi (come l’informatica, la comunicazione, il marketing, la psicologia, l’ecologia) si fa sempre più sottile.
I numeri dicono che – almeno per chi si specializza bene – il lavoro arriva. Secondo una ricerca di Fondazione Symbola, oltre il 91% dei laureati in design trova lavoro entro 5 anni e più dell’83% lavora in un ambito coerente con i propri studi. Certo, i primi anni spesso sono fatti di stage, freelance, progetti brevi. Ma poi si cresce, si consolida, ci si costruisce un’identità professionale.

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Come orientarsi tra tante opzioni
La prima cosa è conoscersi. Ti piace disegnare a mano o ami i software? Sei più portato per la moda, per il prodotto, per la comunicazione visiva? Ti interessano le esperienze digitali o preferisci sporcarti le mani? Ogni ambito richiede una combinazione diversa di attitudini.
Poi serve guardare da vicino cosa si studia davvero. I piani di studio non sono tutti uguali: alcuni corsi mettono l’accento sulla tecnologia, altri sull’arte, altri ancora sul business. Leggi con attenzione, fai domande, partecipa agli open day, chiedi agli studenti che ci sono dentro. Fatti un’idea dell’ambiente.
Se ti trovi a metà tra due mondi, sappi che i percorsi ibridi sono sempre più richiesti: interaction design, fashion tech, eco-design, design dei servizi, artigianato digitale. Qui si incrociano discipline e nascono figure nuove. Anche un po’ difficili da spiegare, ma spesso molto richieste.
Fare esperienza, da subito
La differenza, spesso, la fanno le esperienze extra: stage, laboratori, concorsi, summer school, portfolio review, workshop. Tutto quello che ti permette di sporcarti le mani e costruire un progetto tuo. Tutto quello che ti costringe a mettere insieme testa, cuore e competenze.
Molte scuole offrono queste occasioni direttamente. Ma è importante anche cercarsele: ci sono festival, bandi, fiere, call internazionali che cercano giovani designer. Concorsi come ITS, Compasso d’Oro Giovani, Mittelmoda. Opportunità Erasmus. Tirocini in azienda o in studio. Tutto vale.
Un consiglio spassionato: tieni aggiornato il tuo portfolio, fisico o digitale. È il tuo biglietto da visita. Mostra non solo i lavori belli, ma quelli che raccontano come ragioni, come risolvi un problema, come trasformi un’idea in qualcosa di concreto.
Una scelta che è anche un progetto
Studiare design, moda o arti visive non significa solo imparare una professione. Vuol dire anche entrare in un modo diverso di guardare il mondo. Dove le cose si costruiscono con pazienza, dove ogni oggetto ha una storia, e dove il pensiero prende forma attraverso le mani.
Non esiste un’unica strada giusta. Esiste quella che ti somiglia di più. Quella che ti permette di crescere, di sbagliare, di fare tentativi, di cambiare idea. Se senti che è questo il tuo mondo, è già un buon punto di partenza.
Come diceva Dieter Rams, uno dei grandi maestri: “Il buon design è il meno design possibile”. Forse vale anche per le scelte di vita: meno sovrastrutture, più verità. Parti da ciò che sei, e costruisci il tuo percorso. Un progetto alla volta.
