Competenze “tecniche” e competenze “umane”: non sono due mondi separati
Le competenze tecniche (quelle che chiamiamo hard skill) si studiano: sai usare Excel, programmare, parlare inglese, scrivere un preventivo. Si imparano sui libri, nei corsi, nelle esercitazioni. Ma spesso è fuori da quei contesti che si capisce se sappiamo davvero usarle.
Per esempio: sapresti spiegare quel preventivo a un cliente nervoso? O risolvere un problema in team, con qualcuno che non è d’accordo con te?
Qui entrano in gioco le competenze trasversali: ascolto, empatia, adattabilità, gestione del tempo. Abilità che non hanno una materia dedicata, ma che fanno la differenza ovunque. Due persone con lo stesso curriculum non sono mai davvero “uguali”: ciò che cambia è il modo in cui stanno nel mondo.
Per anni, queste competenze sono state trattate come un “plus”. Oggi non possiamo più permettercelo.
Il mondo del lavoro le cerca (e le misura)
Chi assume lo sa bene: non basta che una persona “sappia fare”. Deve anche saper lavorare con gli altri, gestire lo stress, imparare in fretta. E lo dice nero su bianco il rapporto Excelsior 2025 di Unioncamere e ANPAL: oltre il 75% delle aziende italiane dà massima importanza alle competenze personali e relazionali nel selezionare giovani diplomati. Fonte
E non è una moda. È una necessità. Perché i lavori cambiano, spesso in corsa. E chi non sa imparare cose nuove, o non riesce a comunicare con il proprio team, rischia di trovarsi bloccato.
“Preferisco assumere una persona meno esperta, ma che ascolta, si adatta e ha voglia di imparare. Le competenze tecniche si insegnano. Il modo di stare in squadra, no”, ci ha detto una recruiter in un laboratorio di orientamento.
Anche a livello internazionale il messaggio è chiaro: il Future of Jobs Report 2025 del World Economic Forum inserisce le competenze come pensiero critico, resilienza, collaborazione e curiosità tra le più richieste in assoluto nel prossimo decennio.
Ma allora… come si imparano?
Non c’è un “corso di empatia” o un test di comunicazione efficace. Le soft skill si imparano facendo. Provando. Sbagliando. Mettendosi in situazioni reali. Un progetto scolastico dove si lavora in gruppo. Un podcast da costruire insieme. Un laboratorio dove bisogna decidere qualcosa e difendere un’idea. Tutte occasioni che, se prese sul serio, fanno crescere tanto quanto un compito in classe.
La scuola può diventare un contesto vivo dove non si prepara solo alla maturità, ma anche alla realtà.
Il decreto-legge del 19 febbraio 2025, n. 22, lo ha detto chiaramente: è ora di integrare le “competenze non cognitive” — cioè quelle personali, relazionali, emotive — dentro l’esperienza scolastica, non accanto. Fonte
E il Ministero dell’Istruzione lo aveva già iniziato a fare con le Linee Guida sui Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento (i famosi PCTO): non stage a caso, ma esperienze con senso.
Perché parlarne ora, durante l’orientamento
Perché quando si sceglie una scuola — o un percorso dopo la scuola — si tende a pensare solo alle materie. O al “dove porta”. Ma è altrettanto importante chiedersi: che tipo di esperienze mi farà fare? Che tipo di persona mi chiederà di diventare?
Allenare una competenza tecnica ti prepara per un ruolo. Allenare una soft skill ti prepara per i cambiamenti.
E in un tempo dove le certezze durano poco, avere strumenti flessibili, emotivi, comunicativi è una delle poche vere certezze che possiamo costruire.
In sintesi: le soft skill non sono un extra. Sono la base
La buona notizia è che non servono superpoteri. Servono tempo, fiducia, occasioni in cui le persone — studentə, insegnanti, famiglie — possano mettersi in gioco per davvero. Dove non si valutano solo i risultati, ma anche i modi. Dove una domanda fatta con sincerità vale quanto una risposta giusta.
Allenare le soft skill è un atto di orientamento. E l’orientamento, in fondo, è proprio questo: non decidere cosa fare. Ma iniziare a scegliere come stare.
