Era il 2011 quando sono tornato, da docente, nel liceo dove avevo studiato: il Marconi di Pesaro. Un corso annuale di comunicazione e management, una classe mista di terza e quarta superiore, cinquanta ragazzi e ragazze davanti a me. Lì, in quell’aula, è nata la mia missione.
Insegnavo con passione, con entusiasmo. La classe sembrava incantata, ma dentro di me sentivo che qualcosa non stava funzionando. Mi sono fermato e ho fatto una domanda semplice: “Vi interessa davvero quello che sto raccontando? E il modo in cui lo sto raccontando, vi aiuta o vi confonde?”
Ricordo ancora molto bene la loro risposta: “Prof, lei è coinvolgente. È un piacere ascoltarla. Ma usa parole che non conosciamo, dà per scontate tante cose sul mondo del lavoro che per noi sono totalmente nuove.”
È stato un colpo diretto, ma uno di quelli che ti svegliano e ti aprono gli occhi. Quel giorno ho capito una verità semplice e profonda: quello che è ovvio per una generazione può essere invisibile per un’altra.
E ho capito che i giovani non vanno solo formati, ma soprattutto ascoltati. Vanno aiutati a costruire un ponte tra quello che sono oggi e quello che possono diventare. Da lì ho cominciato un nuovo percorso, importante, molto diverso dalle mie abitudini. Con il Preside avevo preso l’impegno di insegnare un anno, ci sono rimasto tre. Anni in cui ho dato tutto quello che potevo, ma soprattutto ho imparato. Ho imparato a parlare con loro, e per loro. Non più solo a loro.
Poi sono arrivate le università, i progetti, le aule piene, gli eventi. Ricordo ancora la mia prima lezione al Campus di Rimini dell’Università di Bologna: tutti gli studenti erano fuori ad aspettarmi, in Piazzetta Teatini. Mi hanno chiesto di continuare la lezione all’aperto. E lì, con le voci della città come colonna sonora, ho avuto la conferma che l’apprendimento vero nasce dall’incontro, dalla relazione, dal rispetto.
In tutti questi anni ho incontrato migliaia di giovani, italiani e stranieri. Molti erano spaventati. Spaventati dal mondo del lavoro, dalle scelte che devono affrontare, dalle decisioni che sentono sulle spalle. Tutto appare come una giungla: complessa, chiusa, spesso giudicante. E in effetti, la distanza tra scuola e lavoro, tra generazioni, è ancora enorme.
Ma una giungla può anche essere affascinante, se la conosci e impari ad affrontarla. Se ti prepari, magari con qualcuno al tuo fianco che ti aiuta a vedere i sentieri nascosti. Allora ciò che appare impervio, complesso, spaventoso — semplicemente perché sconosciuto — diventa un territorio di opportunità, crescita, visione, realizzazione.
Tutti abbiamo attraversato la nostra giungla. Io ho cambiato strada tante volte, per scelta o per necessità. Sono riuscito ad orientarmi nel caos grazie a due cose: metodo e competenza. Metodo per mettere ordine, e competenze adeguate per poter competere.
È così che è nato SpoilerBox: un metodo per un orientamento contemporaneo, che ho costruito ascoltando davvero i ragazzi e le ragazze che ogni giorno incrocio nei miei percorsi. Un metodo che parte da ciò che sei e da ciò che hai già dentro: la tua Box, l’insieme di qualità che ti caratterizza. Poi arriva lo Spoiler: la capacità di proiettarti in avanti, di immaginare, di scegliere, di testare il tuo futuro.
La mia idea di orientamento è quella di fornire strumenti per un auto-orientamento su misura. Non tracce impersonali, non frasi motivazionali da effetti speciali. Credo nella cura. Credo nel tempo, nell’ascolto, nella possibilità di sbagliare senza essere etichettati.
L’orientamento non è un elenco di opzioni. È un gesto di reciproca responsabilità: verso sé stessi, per i giovani; verso gli altri, per chi li affianca. È un incontro tra chi cerca e chi accompagna. È un ponte tra mondi che spesso si sfiorano ma non si capiscono: scuola e lavoro, giovani e adulti.
Mondi da unire attraverso un processo concreto, fondato su informazioni precise, dati, strumenti, aree tematiche e professioni da conoscere. Tutto questo va reso accessibile agli stuedenti. E il mezzo principale per rendere solido il processo è la relazione. L’orientamento che mi piace è umano.
Io questo ponte cerco di costruirlo ogni giorno: nei percorsi con gli studenti delle scuole superiori, nei progetti con le università, negli interventi aziendali con di team working intergenerazionale, nelle conversazioni con i genitori — come me — che faticano a capire i propri figli.
Essere parte del comitato scientifico di Alpha Orienta è, per me, un onore, ma soprattutto una responsabilità. Non solo perché credo nel valore di questo progetto, ma perché ho fiducia nelle persone che lo stanno costruendo. Colleghi che mettono insieme testa e cuore, che non cercano scorciatoie, che vogliono incidere con strumenti chiari, linguaggio autentico e contenuti utili.
Alpha Orienta è un luogo dove l’orientamento viene trattato con rispetto, precisione, creatività. È un progetto che accende possibilità. Lo dice bene Bob Dylan:
“Essere giovani vuol dire tenere aperto l’oblò della speranza, anche quando il mare è cattivo e il cielo si è stancato di essere azzurro.”
Ecco, io penso che fare orientamento oggi significhi mantenere aperto quell’oblò. Offrire ai ragazzi non solo sogni, ma speranza concreta. Dimostrare che il mondo del lavoro può essere un’avventura piacevole, impegnativa ma possibile, se ti conosci, se impari a scegliere, se ti prepari bene.
Ho grande fiducia — e grande speranza — nelle nuove generazioni: ragazzi e ragazze che aspettano solo di essere compresi, affiancati, accesi.
Alpha Orienta è una di queste luci. Per questo sono felice di esserci.

