Le migliori università italiane per trovare lavoro: la classifica Censis 2025/2026 per occupabilità

Scopriamo quali atenei italiani offrono le migliori prospettive di lavoro dopo la laurea.

di Lucia Resta
19 settembre 2025
1 MIN READ

Scegliere l’università, oggi, non significa soltanto decidere cosa studiare. Per molti, significa anche e soprattutto chiedersi: dove avrò più possibilità di trovare lavoro? Non è un dettaglio. È una domanda che pesa. Per chi investe anni della propria vita in un corso di laurea, magari facendo sacrifici economici, l’orizzonte dell’occupazione non è un bonus: è il minimo sindacale. Una laurea, oggi, non garantisce nulla. Ma alcune università offrono condizioni migliori di partenza.

Ogni anno, il Censis pubblica una classifica delle università italiane basata su sei indicatori: didattica, strutture, servizi, borse di studio, internazionalizzazione e — appunto — occupabilità. Un dato che cerca di rispondere a una domanda semplice: dopo aver studiato lì, che probabilità hai di lavorare? I dati si basano su rilevazioni ufficiali, come quelle di AlmaLaurea, e offrono una fotografia interessante — e in certi casi sorprendente — dell’università italiana.

In questo articolo ci concentreremo solo su questo: quali sono gli atenei che, numeri alla mano, preparano meglio al mondo del lavoro. Senza promesse da open day, senza frasi fatte. Solo dati. Solo fatti. Perché se studiare è un diritto, poter trasformare quello studio in un lavoro dovrebbe esserlo altrettanto.

Come il Censis misura l’occupabilità

Non tutti gli atenei sono uguali, e non tutte le lauree portano alle stesse strade. Ma una cosa è certa: alcune università riescono a costruire un ponte verso il lavoro più solido di altre. Nel tentativo di restituire questa realtà, il Censis include tra i suoi indicatori anche l’occupabilità: una voce che misura, in sostanza, quanta distanza c’è tra l’aula e il primo stipendio.

Il dato non nasce da sensazioni o opinioni, ma da numeri. I principali provengono da AlmaLaurea, il consorzio interuniversitario che da anni analizza le condizioni occupazionali dei laureati italiani, a uno, tre o cinque anni dal titolo, a seconda del ciclo di studi. Il Censis prende questi dati e li rielabora, assegnando un punteggio su 110 per ogni ateneo, come fa per tutti gli altri indicatori. Il risultato non dice solo quanti trovano lavoro, ma anche quanto velocemente, in quale forma contrattuale, e con quale adeguatezza rispetto al titolo di studio.

Il dato dell’occupabilità non premia solo chi ha i corsi “giusti” (come ingegneria o informatica), ma anche chi costruisce percorsi solidi, fa rete con le aziende, e accompagna davvero i propri studenti fuori dall’università. Non è un indicatore perfetto, ma è utile, perché racconta qualcosa che troppe classifiche ignorano: quanto quello che studi si traduce, o meno, in una vita autonoma.

I mega atenei statali: quando i numeri contano anche fuori dall’aula

Più sono grandi, più sono complessi. I mega atenei statali — quelli con oltre 40.000 iscritti — sono universi a sé. Dentro ci trovi tutto: eccellenze, disfunzioni, opportunità e ostacoli. Ma tra tutte queste cose, alcuni riescono a fare una cosa che conta più di mille slogan: preparano davvero i loro studenti al lavoro.

Nella classifica Censis 2025/2026, l’università che ottiene il punteggio più alto per occupabilità in questa fascia è l’Università di Milano con 97 punti.

Seguono:
Pisa → 97
Padova → 94
Firenze → 93
Bologna → 92
Torino → 91
Roma La Sapienza → 89
Napoli Federico II → 85
Bari → 77
Palermo → 73

Le prime posizioni parlano chiaro: gli atenei del Centro-Nord dominano sul fronte dell’occupabilità. Milano, Pisa, Padova, Firenze e Bologna ottengono punteggi alti, a conferma di un ecosistema universitario che non si limita a formare, ma riesce anche a creare connessioni efficaci col mercato del lavoro. Molto dipende dalle città in cui si trovano. Dove ci sono aziende, innovazione, reti professionali attive, è più facile costruire percorsi che portano rapidamente fuori dall’università — senza restare impantanati nella precarietà o nell’attesa.

La Sapienza e Federico II, pur rimanendo tra i migliori grandi atenei d’Italia in termini di storia e offerta formativa, pagano un contesto occupazionale più complesso, dove le opportunità sono meno distribuite o meno accessibili. Non è una questione di valore assoluto. Ma il dato è chiaro: il passaggio dallo studio al lavoro è più fluido in certi ambienti. E chi studia in un mega ateneo del Nord — se riesce a orientarsi — parte con qualche carta in più da giocarsi.

Grandi atenei statali: dove l’università diventa ponte verso il lavoro

Nella fascia intermedia degli atenei con tra 20.000 e 40.000 iscritti l’equilibrio tra dimensione e accessibilità può fare la differenza. Meno dispersivi dei mega, più strutturati dei medi, sono spesso il punto giusto per chi cerca un’università solida, ma non impersonale.

Secondo il Censis 2025/2026, l’ateneo che guida la classifica per occupabilità in questa fascia è l’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, con un punteggio di 104 su 110. Subito dietro troviamo:

Milano Bicocca → 103
Ferrara → 101
Verona → 101
Genova → 99
Roma Tor Vergata → 97
Parma → 94
Pavia → 94
Perugia → 88
Roma Tre → 87
Cagliari → 84
Salerno → 80
Catania → 79
Campania Vanvitelli → 78
Calabria → 76
Chieti e Pescara → 76
Messina → 67

Modena, Bicocca, Ferrara e Verona ottengono punteggi molto alti, a conferma di una connessione efficace con il mondo del lavoro e di una gestione del placement che va oltre il formale. In questi atenei, la transizione post-laurea non è lasciata al caso: si lavora su tirocini, collaborazioni con aziende, servizi di orientamento che funzionano davvero.

Colpisce anche il dato di Genova, spesso sottovalutata a livello mediatico, ma qui ben posizionata grazie alla forza del suo tessuto tecnico e industriale. Più in basso troviamo atenei come Messina, Calabria e Chieti–Pescara, dove l’indicatore occupabilità scende sotto i 77 punti. Un dato che non parla solo di università, ma anche — e forse soprattutto — di territori dove le occasioni lavorative scarseggiano, e il passaggio dallo studio al lavoro diventa più incerto.

In sintesi: chi sceglie un grande ateneo può trovare il giusto compromesso tra formazione, contesto e futuro professionale, ma la differenza — come sempre — la fa la capacità dell’università di attivare connessioni reali, non solo dichiarate.

Medi atenei statali: quando la dimensione aiuta l’inserimento

A metà strada tra i piccoli centri e le grandi città universitarie, i medi atenei offrono spesso un equilibrio raro: abbastanza grandi da aprire opportunità, abbastanza piccoli da non disperderle. Le strutture sono più snelle, il rapporto con i docenti è spesso più diretto, e i percorsi di accompagnamento al lavoro riescono a essere più mirati.

Nella classifica Censis 2025/2026, il primo posto per occupabilità in questa fascia va all’Università Politecnica delle Marche, con un punteggio altissimo: 106 su 110.

Subito dietro troviamo:
Brescia → 104
Insubria → 104
Bergamo → 103
Piemonte Orientale → 103
Trieste → 102
Udine → 102
Trento → 98
L’Aquila → 96
Venezia Ca’ Foscari → 94
Urbino Carlo Bo → 87
Siena → 85
Napoli Parthenope → 84
Sassari → 84
Catanzaro → 83
Foggia → 78
Napoli L’Orientale → 66
Salento → 66

I dati raccontano una realtà interessante: molti degli atenei con le performance occupazionali più alte si trovano in città medie del Centro-Nord, spesso fuori dai radar dei grandi ranking internazionali, ma fortemente connessi con il tessuto produttivo locale. L’esempio più evidente è Ancona: la Politecnica delle Marche lavora da anni con le imprese del territorio, soprattutto nei settori dell’ingegneria e della sanità, riuscendo a tradurre la formazione in lavoro con continuità.

Molto bene anche Insubria, Bergamo e il Piemonte Orientale, che sfruttano l’interscambio con le aree industriali e i poli tecnologici del Nord. Trento e Trieste confermano la loro solidità, Udine e Brescia dimostrano che una buona politica di placement può funzionare anche fuori dai grandi centri metropolitani. Più in difficoltà, invece, alcune realtà del Sud, come Napoli L’Orientale e il Salento, dove i punteggi bassi non parlano tanto della qualità dei corsi, quanto della mancanza di un ecosistema lavorativo in grado di assorbire i laureati.

In generale, chi cerca un’università dove studiare senza perdersi e con buone probabilità di trovare lavoro entro tempi ragionevoli, in questa fascia ha molte opzioni concrete.

Piccoli atenei statali: quando la prossimità diventa un vantaggio

Nei piccoli atenei il rapporto con l’università è diverso. Le distanze si accorciano — fisicamente e simbolicamente. Non sei uno tra tanti, e spesso non resti indietro in silenzio. Anche per questo, per alcuni studenti, questi contesti possono rappresentare un’alternativa concreta alle grandi città. Sul fronte dell’occupabilità, però, non tutti i piccoli atenei riescono a garantire le stesse opportunità. Il territorio in cui si trovano, la presenza (o assenza) di imprese, la capacità di costruire reti esterne fanno la differenza.

Nella classifica Censis 2025/2026, l’ateneo che ottiene il punteggio più alto tra i piccoli è l’Università di Camerino, con 96 punti su 110.

Seguono con un distacco netto:
Tuscia (Viterbo) → 84
Basilicata → 83
Molise → 83
Macerata → 80
Cassino → 77
Sannio → 74
Teramo → 73
Reggio Calabria – Mediterranea → 69

Camerino è una realtà da tempo molto attiva nel garantire un accompagnamento solido alla professione, soprattutto in ambito scientifico, medico e veterinario. Un ateneo piccolo ma connesso, dove la scala ridotta non penalizza, ma facilita. Gli altri, invece, presentano punteggi più bassi e discontinui. In alcuni casi si tratta di contesti isolati, con un tessuto occupazionale fragile, dove anche i laureati migliori faticano a trovare sbocchi coerenti con il percorso di studi.

Il punto, come sempre, non è tanto cosa si studia, ma dove e con quali strumenti si viene accompagnati fuori dall’università. E nei piccoli atenei, questo accompagnamento non è sempre strutturato. Chi sceglie un’università di piccole dimensioni, dunque, può trovare un ambiente più umano e meno dispersivo, ma deve anche valutare attentamente le prospettive post-laurea, che in molti casi dipendono più dal territorio che dall’aula.

I Politecnici: quando il lavoro non è una promessa, ma una prospettiva concreta

Ci sono corsi di laurea che portano naturalmente più vicini al lavoro. E poi ci sono atenei che, su questo punto, costruiscono la loro identità. I Politecnici italiani rientrano in questa seconda categoria. Strutturati, selettivi, fortemente legati al mondo produttivo, sono pensati per formare professionisti pronti a entrare nel mercato — e in molti casi, a guidarlo.

La classifica Censis 2025/2026 lo conferma: l’occupabilità qui non è un obiettivo vago, ma un risultato misurabile.

I punteggi parlano chiaro:
Politecnico di Milano → 110
Politecnico di Torino → 110
Politecnico di Bari → 109
Università Iuav di Venezia → 97

Milano e Torino ottengono il punteggio massimo. Bari li segue da vicino con un 109 che segnala una qualità formativa alta e un’ottima capacità di inserimento professionale, soprattutto nei settori dell’ingegneria civile, gestionale e informatica. Anche lo Iuav di Venezia, più piccolo e orientato su architettura, design e pianificazione, mostra performance solide. Il suo 97 è un punteggio di tutto rispetto, in un ambito in cui l’occupabilità dipende anche dal portafoglio personale e dalla mobilità post-laurea.

Cosa distingue questi atenei? Il legame stabile con le imprese, l’attenzione alle competenze tecniche richieste dal mercato, e una cultura dell’efficienza che raramente si trova altrove nel sistema universitario italiano. Non sono università per tutti. Richiedono ritmi intensi, selezione continua, e in molti casi un trasferimento in città dove vivere costa molto. Ma per chi le sceglie — e regge il passo — la distanza tra l’ultimo esame e il primo contratto spesso si misura in settimane, non in mesi.

E le università non statali?

Nel caso delle università non statali — private e telematiche — il Censis non fornisce un dato specifico sull’occupabilità. Nella classifica 2025/2026 vengono riportati i punteggi complessivi per ciascuna fascia dimensionale (grandi, medi e piccoli atenei), ma l’indicatore relativo all’inserimento nel mondo del lavoro non è presente o isolabile.

Questo non significa che non esistano dati su questi atenei, ma semplicemente che, all’interno della metodologia Censis, non vengono pubblicati o resi accessibili in forma comparabile con quelli del sistema universitario statale. In un’analisi come questa, basata solo su fonti ufficiali, non sarebbe corretto inserire o dedurre informazioni che il report non fornisce ed evitiamo dunque confronti forzati o poco affidabili.

Sintesi comparativa: chi prepara meglio al lavoro

Mega atenei statali (oltre 40.000 iscritti)
Milano Statale → 97
Pisa → 97
Padova → 94
Firenze → 93
Bologna → 92
Torino → 91

Nota: I mega atenei del Centro-Nord guidano la classifica, grazie a forti legami con il mondo produttivo e un ecosistema favorevole all’inserimento lavorativo.

Grandi atenei statali (20.000–40.000 iscritti)
Modena e Reggio Emilia → 104
Milano Bicocca → 103
Ferrara → 101
Verona → 101
Genova → 99

Nota: Questa fascia è quella con i punteggi più alti in assoluto. Diversi atenei del Nord si distinguono per continuità, rete con le aziende e placement efficiente.

Medi atenei statali (10.000–20.000 iscritti)
Politecnica delle Marche → 106
Brescia → 104
Insubria → 104
Bergamo → 103
Piemonte Orientale → 103

Nota: I medi atenei del Nord e del Centro dominano anche qui. Dove la scala è giusta e il legame col territorio è forte, l’occupabilità aumenta.

Piccoli atenei statali (meno di 10.000 iscritti)
Camerino → 96
Tuscia (Viterbo) → 84
Basilicata → 83
Molise → 83
Macerata → 80

Nota: Solo pochi piccoli atenei riescono a garantire buoni risultati occupazionali. La geografia, più che la dimensione, sembra fare la differenza.

Politecnici
Milano → 110
Torino → 110
Bari → 109
Venezia Iuav → 97

Nota: I politecnici guidano senza rivali. Qui l’occupabilità non è una promessa: è parte della struttura stessa dell’offerta formativa.

Studiare va bene. Ma poi, si lavora?

Trovare lavoro dopo l’università non è solo una questione di fortuna, e nemmeno soltanto di cosa si studia. Conta anche dove si studia, in quale contesto, con quali strumenti. Conta il tipo di relazioni che l’università riesce a costruire con il mondo che c’è fuori dalle aule. E conta, soprattutto, quanto un ateneo si prende la responsabilità di accompagnare davvero i suoi studenti oltre la laurea.

I dati del Censis 2025/2026, in questo senso, parlano con chiarezza. Alcuni atenei — a volte noti, a volte meno — dimostrano che l’università può essere un ponte vero verso il lavoro. In altri casi, quel ponte è più fragile, più incerto, o addirittura assente. E quasi sempre il motivo non è solo accademico: c’entra il territorio, l’accesso alle imprese, la capacità di fare rete.

Per chi oggi sta scegliendo dove studiare, l’indicatore sull’occupabilità non è una risposta definitiva, ma è una domanda da porsi: quale università mi darà gli strumenti, ma anche le connessioni giuste per iniziare a lavorare davvero? Perché studiare è un diritto. Ma trasformare lo studio in autonomia economica, progettualità, possibilità concreta di vivere del proprio lavoro, dovrebbe esserlo altrettanto.

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