Il dottorato di ricerca: cosa significa davvero, come si accede e perché (forse) ne vale la pena

Che cosa ci fai tre anni (o più) a studiare una cosa sola, tutti i giorni? Perché scegliere di guadagnare poco, lavorare tanto, spiegare mille volte a parenti e amici che “non è un altro master”? Se ti stai ponendo queste domande, forse hai incrociato la strada del dottorato di ricerca, e stai cercando di capire se imboccarla. Questo articolo non ti darà la risposta giusta, perché non esiste. Ma ti offrirà un viaggio guidato dentro il significato, le regole, le opportunità (e i limiti) del terzo ciclo di studi universitari: il più lungo, il più difficile, il più sottovalutato.

di Alpha Orienta
19 maggio 2025
1 MIN READ

Cos'è davvero un dottorato di ricerca

Un dottorato non è una “scuola post-laurea”. Non è nemmeno solo “una borsa di studio per fare ricerca”. È un percorso formativo che ti porta a diventare un ricercatore o una ricercatrice in senso pieno: capace di esplorare un problema complesso, formulare domande nuove, inventare metodi, argomentare, scrivere, pubblicare, contribuire alla conoscenza.

È il più alto livello formale di istruzione universitaria (livello 8 del Quadro Europeo delle Qualifiche) e, in italia, richiede una laurea magistrale. Ha una durata minima di 3 anni, ma in molti casi si arriva a 4. Alla fine, si discute una tesi originale e si ottiene il titolo di “Dottore di ricerca”.

E fuori dall’Italia? Negli USA, in UK, in Germania o Francia le regole cambiano (su durata, requisiti, struttura) ma il concetto resta: una formazione alla ricerca originale. In alcuni Paesi sei uno studente (come da noi), in altri sei assunto con un contratto da junior researcher. In Italia, sei formalmente uno studente, con una borsa di studio di circa 1.200 euro netti al mese (esente IRPEF, ma con pochi contributi pensionistici).

Come si accede

In Italia si entra al dottorato con un concorso pubblico bandito dalle università. Ogni programma (es. Dottorato in Fisica, in Economia, in Filologia) pubblica un bando con pochi posti (spesso meno di dieci, ma anche meno) e un numero limitato di borse. Si partecipa con un progetto, un curriculum, spesso si fa una prova scritta e un colloquio.

I criteri? Dipendono dal programma. Di solito si valuta il tuo percorso di studi, il progetto proposto, la preparazione, la motivazione. In alcuni casi si concorre su progetti già definiti dai docenti. In altri (soprattutto all’estero) contano lettere di referenza, statement of purpose, e si viene selezionati direttamente dal gruppo di ricerca.

Dove cercare i programmi

  • Il portale del MUR pubblica tutti i bandi attivi in Italia.
  • I siti delle singole università hanno sezioni dedicate ai dottorati.
  • Portali come Euraxess, FindAPhD, Academic Positions raccolgono offerte in tutta Europa e oltre.
  • Molti atenei promuovono dottorati “innovativi” finanziati dal PNRR, legati a temi come la transizione ecologica, la digitalizzazione, la PA.
  • Contattare direttamente i professori di un gruppo di ricerca è ancora uno dei modi più efficaci per scoprire posizioni aperte.

Ma dopo, che succede?

La grande domanda. Dopo il dottorato non diventi automaticamente professore. Anzi, solo 1 dottore di ricerca su 10 trova posto strutturato in università in Italia. I più continuano con assegni di ricerca, post-doc, altri contratti precari. E dopo ancora, si vedrà.

Ma non è tutto accademia. Circa il 30% dei PhD lavora nel settore privato, soprattutto R&D. Altri entrano nella PA, nel terzo settore, nella consulenza. Alcuni fondano startup. Il tasso di occupazione a un anno dal titolo è del 91,5%. La retribuzione media è di circa 1.900 euro netti al mese (più alta di quella dei laureati magistrali), ma molto dipende dal settore.

Attenzione però: tra chi rimane in accademia, il 40% continua con assegni di ricerca a tempo determinato, spesso per anni. E circa il 17% degli ex-dottorandi italiani si trasferisce all’estero per trovare migliori condizioni.

Quando ha senso fare un dottorato?

  • Se ti appassiona la ricerca e ti piace l’idea di contribuire, davvero, alla conoscenza.
  • Se vuoi lavorare in ambiti dove il PhD è richiesto o valorizzato: accademia, R&D, data science, think tank, politiche pubbliche, ecc.
  • Se sei disposto/a a sacrificare qualche anno di stabilità economica per costruire competenze di altissimo livello.

E quando è meglio pensarci due volte?

  • Se vuoi solo un “titolo in più” per il CV.
  • Se non sai cosa fare e pensi che “intanto studio ancora”.
  • Se il tuo settore non richiede il PhD e hai offerte di lavoro che ti interessano già.

Cosa considerare prima di decidere

  • Informati sul gruppo di ricerca, sul tutor, sui progetti attivi.
  • Valuta la sostenibilità economica (soprattutto se devi trasferirti).
  • Cerca di capire quali competenze svilupperai e se sono spendibili anche fuori dall’università.
  • Chiedi a chi ci è passato: ex-dottorandi, tutor, colleghi.

Un percorso con luci e ombre

Fare un dottorato può essere una delle esperienze più arricchenti della tua vita, ma solo se ci entri con consapevolezza. I vantaggi sono tanti: competenza profonda, rete internazionale, capacità di ricerca avanzata, opportunità in settori di punta. Ma non è una passeggiata: è un percorso lungo, solitario, spesso incerto, che richiede motivazione, autonomia e resistenza.

Se la tua domanda è “Mi conviene farlo?”, la risposta è: dipende. Ma se la domanda è “Mi interessa abbastanza da volerlo fare bene?”, allora la risposta potrebbe essere sì.

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