C’è chi si diploma sapendo già cosa farà. Magari ha partecipato a un laboratorio in quarta, ha parlato con qualcuno che fa il lavoro dei suoi sogni, ha visitato un’università, si è sentito ascoltato.
E poi c’è chi, a pochi mesi dalla maturità, non ha ancora capito da dove cominciare. Nessuno gli ha spiegato davvero come funziona l’università. Nessuno ha fatto orientamento nella sua scuola. Forse, nessuno gli ha nemmeno chiesto cosa vorrebbe diventare.
Succede ancora oggi, in tante scuole italiane. Non perché manchino le idee o le risorse a livello nazionale, ma perché non tutti gli studenti ricevono lo stesso tipo di attenzione, supporto, possibilità. Alcuni hanno intorno una rete che li guida. Altri no. E questo fa la differenza. Lo conferma anche il report Orientarsi dopo la scuola 2025, che ha raccolto la voce di oltre 4.000 ragazze e ragazzi. Da quella fotografia emerge una realtà che molti conoscono già, ma che pochi raccontano con i dati alla mano: in Italia, quando si parla di orientamento, non si parte tutti dalla stessa linea di partenza.
Quando l’orientamento c’è, ma non per tutti
In teoria, l’orientamento dovrebbe esserci per tutti. Ma nella pratica, non è così. Il report del CISIA lo mostra chiaramente: dipende molto dalla scuola che frequenti. Nei licei, ad esempio, è più facile che ci siano iniziative strutturate: Open Day, incontri con le università, laboratori, tutor. Negli istituti tecnici e professionali, invece, le occasioni sono spesso più sporadiche o meno curate.
Non è questione di volontà, ma di mezzi, di tempo, di priorità. Eppure, chi frequenta un tecnico o un professionale non ha meno bisogno di orientamento. Anzi: spesso ha davanti una scelta ancora più complessa, tra lavoro, corsi universitari, ITS, specializzazioni. Ma riceve meno strumenti per farla. Un dato su tutti: tra chi ha detto di non aver mai partecipato ad attività di orientamento, il 25,5% ha spiegato che nessuno gliele ha proposte. Non perché non volesse, ma perché non c’è mai stata l’occasione. E quando l’orientamento non arriva, il rischio è che si scelga per imitazione, per caso, o per esclusione — e non perché si è davvero pronti.
Anche la partecipazione agli eventi universitari segue questa logica. Chi ha frequentato un liceo ha più probabilità di aver partecipato a un Open Day o a una simulazione di lezione. Chi viene da un tecnico o da un professionale, molto meno. È in queste differenze che si creano, silenziosamente, i divari tra studenti di serie A e studenti di serie B. Non sono divari di capacità, ma di opportunità. E spesso, chi resta indietro non sa nemmeno che avrebbe potuto chiedere di più.
Il contesto familiare
Quando si parla di orientamento, c’è una variabile che non compare nei programmi scolastici, ma che fa una differenza enorme: la famiglia. Avere genitori che hanno studiato, che conoscono il mondo universitario o che semplicemente sanno come muoversi tra scadenze, corsi e bandi, cambia tutto. Anche questo emerge chiaramente dal report: chi frequenta il liceo, molto spesso, proviene da famiglie con un livello di istruzione più alto. Al contrario, tra gli studenti dei tecnici e dei professionali sono più frequenti situazioni in cui i genitori hanno al massimo la licenza media o un diploma.
Questa differenza non incide solo sul tipo di scuola scelto, ma anche su come viene vissuto il momento della scelta dopo il diploma. Chi ha una famiglia che conosce l’università ha più facilità a:
- capire come funzionano corsi, esami, test di ingresso;
- orientarsi tra le alternative;
- sentirsi legittimato a fare domande, a esplorare, a scegliere in autonomia.
Chi invece non ha questo tipo di supporto, spesso si affida alla scuola come unico punto di riferimento. Ma se anche la scuola è in difficoltà, il risultato è che nessuno accompagna davvero quel ragazzo o quella ragazza nella scelta.
Il rischio è che si crei una catena che si autoalimenta: chi ha più strumenti, ne riceve altri; chi ne ha meno, resta indietro. E così l’orientamento, che dovrebbe essere un’occasione per riequilibrare le disuguaglianze, finisce per replicarle. Per cambiare davvero le cose, serve riconoscere questo punto: non tutti hanno alle spalle lo stesso bagaglio. E proprio per questo, l’orientamento deve essere pensato su misura, non uguale per tutti.
Territorio e possibilità: una questione anche geografica
Non tutte le scuole sono uguali, e nemmeno tutti i territori. Il report CISIA lo suggerisce in modo chiaro, anche se non in modo esplicito: le opportunità di orientamento non sono distribuite in modo omogeneo sul territorio nazionale. Chi studia in certe aree del Paese ha accesso a più occasioni, a strutture meglio organizzate, a un’offerta più ampia. Altri no.
Succede soprattutto tra Nord e Sud, ma anche tra città e province, tra centri urbani e aree interne. In alcune scuole del Nord, ad esempio, l’orientamento è una parte ben integrata del percorso scolastico: ci sono Open Day, laboratori, sportelli, contatti diretti con università e aziende. In altre realtà, magari in un istituto tecnico di una cittadina del Sud o dell’entroterra, le attività sono più rare, più improvvisate o completamente assenti.
Non è una questione di impegno dei docenti o di qualità degli studenti. È una questione di risorse, reti, collegamenti, tempo. E di possibilità di movimento: partecipare a un Open Day può sembrare banale, ma non lo è se l’università è a due ore di treno, e nessuno ti accompagna. Servono tempo, soldi, magari anche un mezzo di trasporto. Se vivi in un piccolo comune o in un’isola, e in famiglia nessuno può accompagnarti, spesso non ci vai. E perdi un’occasione che altri danno per scontata.
Anche la familiarità con il sistema universitario cambia da regione a regione. Ci sono zone in cui l’università è una presenza visibile, concreta, vicina. E altre dove è ancora percepita come qualcosa di “lontano”, per pochi.
Il risultato? Ancora una volta, non tutti gli studenti partono dallo stesso punto. Il luogo in cui si nasce e si studia può allargare o restringere l’orizzonte delle possibilità. E questo non riguarda solo l’università, ma anche le alternative: corsi professionalizzanti, ITS, esperienze all’estero. Più è piccolo il mondo attorno, meno si riesce a immaginare cosa c’è fuori.
I numeri del report parlano in parte da soli: il Nord è più rappresentato tra i rispondenti, i licei sono più presenti rispetto ad altre scuole, e certe aree del Paese — come le isole o le aree interne — faticano a emergere. È un segnale, silenzioso ma chiaro: non tutte le voci riescono a entrare nelle indagini, così come non tutte riescono a entrare nei percorsi di orientamento.
Conseguenze concrete: chi resta fuori, chi si scoraggia
Non avere accesso a un buon orientamento non significa semplicemente “sapersi organizzare meno”. Vuol dire arrivare alla fine della scuola senza strumenti per scegliere, senza esempi da seguire, senza qualcuno che ti faccia vedere che ci sono possibilità anche per te. E quando questo manca, le conseguenze si vedono.
Il report Orientarsi dopo la scuola 2025 dà voce anche a quei ragazzi che non si sono iscritti all’università dopo il diploma. Tra loro, in molti raccontano la stessa sensazione: confusione, isolamento, mancanza di supporto. Non è che non volessero continuare. Spesso, semplicemente, non sapevano come farlo. O non sapevano da dove partire.
In altri casi, la scelta di non proseguire arriva per stanchezza, per paura di sbagliare, per mancanza di fiducia. Anche qui, l’assenza di orientamento fa la sua parte: quando nessuno ti aiuta a chiarire cosa vuoi e cosa puoi fare, è più facile restare fermi. O fare una scelta che non ti somiglia.
E poi ci sono quelli che si iscrivono, ma mollano presto. Perché non hanno capito davvero cosa li aspettava. Perché si sentono spaesati. Perché quella scelta non è mai stata davvero loro.
Tutte queste situazioni diverse hanno qualcosa in comune: sono il risultato di un sistema che dà molto a chi ha già, e troppo poco a chi parte svantaggiato. Un orientamento efficace, se fosse davvero per tutti, potrebbe fare la differenza in questi casi. Potrebbe evitare che un ragazzo rinunci solo perché non ha avuto gli strumenti per capire. Potrebbe dare voce a chi non ha nessuno che gli dica: “Questa strada esiste, e potresti farcela anche tu”.
Cosa servirebbe per colmare il divario
Non serve inventarsi grandi rivoluzioni. Gli studenti stessi, nel report, hanno detto chiaramente cosa servirebbe per migliorare l’orientamento e renderlo davvero accessibile a tutti. Molte delle proposte raccolte sono semplici, concrete, realizzabili. Basta ascoltarle e prenderle sul serio.
1. Portare l’orientamento in tutte le scuole, davvero
Non dovrebbe dipendere dalla fortuna di avere un docente motivato o una preside illuminata. L’orientamento dovrebbe essere parte strutturale del percorso scolastico, in tutte le scuole e per tutti gli indirizzi. Tecnici, professionali, licei: ognuno con le sue caratteristiche, ma con pari dignità e pari accesso alle occasioni di orientamento.
2. Iniziare prima, non all’ultimo minuto
In tantissimi lo hanno detto: orientarsi solo in quinta è troppo tardi. Quando la testa è già piena di scadenze, esami e pressioni, manca il tempo per riflettere davvero. Molti studenti avrebbero voluto iniziare almeno un anno prima, quando si è ancora in grado di esplorare, sbagliare, cambiare idea. L’orientamento dovrebbe essere un processo, non un evento.
3. Pensare a percorsi su misura
Non tutti partono dallo stesso punto, e quindi non ha senso proporre lo stesso orientamento a tutti. Servono percorsi pensati per chi:
- non ha riferimenti in famiglia;
- viene da scuole meno strutturate;
- non sa nemmeno quali alternative esistano dopo il diploma.
In questi casi, il ruolo della scuola è fondamentale. Ma anche quello di figure esterne competenti, come tutor, orientatori, role model, può fare una grande differenza.
4. Dare spazio all’esperienza, non solo all’informazione
Le brochure non bastano. Gli studenti chiedono:
- lezioni simulate,
- laboratori,
- incontri con chi ha già fatto un certo percorso.
Provare, vedere, parlare, chiedere: è questo che aiuta davvero a capire. E chi non ha nessuno in famiglia che può spiegare “com’è davvero l’università”, ha bisogno ancora di più di vivere queste esperienze in prima persona.
5. Pensare anche a chi non andrà all’università
L’orientamento non serve solo a chi vuole iscriversi a un corso di laurea. Anche chi guarda al mondo del lavoro o ai percorsi professionalizzanti ha bisogno di essere accompagnato. ITS, tirocini, formazione tecnica: devono entrare a pieno titolo nei percorsi di orientamento, altrimenti si rischia di lasciare fuori proprio chi ha più bisogno di occasioni concrete.
In particolare, gli ITS (Istituti Tecnologici Superiori) sono ancora poco conosciuti, anche se offrono percorsi post-diploma molto validi, con tassi di occupazione altissimi. Eppure, molti studenti non ne hanno mai sentito parlare. Integrarli seriamente nei percorsi di orientamento non è un dettaglio: è un passo concreto verso una scuola più equa.
In sintesi, non servono soluzioni straordinarie. Servono politiche ordinarie fatte bene. Servono investimenti, sì, ma anche attenzione, ascolto, tempo. Perché se continuiamo a lasciare che l’orientamento funzioni solo per chi ha già strumenti e supporto, continueremo ad avere due scuole diverse. E due futuri diversi.
In sintesi: due scuole, due possibilità
Chi ha frequentato un liceo, vive in una grande città e ha genitori laureati, ha avuto accesso a informazioni, esperienze, strumenti per orientarsi. Chi ha studiato in un professionale del Sud, con genitori senza titolo di studio, spesso non ha ricevuto quasi nulla. Due percorsi diversi, due velocità diverse, due modi opposti di arrivare al momento della scelta. E non per motivi di merito o di impegno, ma per condizioni di partenza profondamente disuguali. Questa non è un’ipotesi. È quello che emerge, con chiarezza, dal report Orientarsi dopo la scuola 2025. E per non fermarci alle parole, ecco alcune delle differenze più evidenti che separano chi ha accesso a un buon orientamento da chi ne resta escluso:
Chi ha ricevuto un orientamento efficace:
- Ha partecipato ad attività in orario scolastico, strutturate e proposte da figure competenti.
- Ha fatto esperienze dirette (visite, laboratori, lezioni simulate) che lo hanno aiutato a capire.
- Conosce le alternative all’università e sa dove trovare informazioni affidabili.
- Ha potuto parlarne con adulti che lo hanno sostenuto, ascoltato, indirizzato.
- Si sente più sicuro, consapevole e motivato nella propria scelta.
Chi non ha ricevuto orientamento (o lo ha ricevuto tardi e male):
- Non ha mai partecipato ad attività dedicate, o non ne ricorda l’utilità.
- Ha ricevuto solo informazioni frammentarie, spesso troppo generiche o scollegate dal suo percorso.
- Non ha mai sentito parlare di ITS o corsi professionalizzanti.
- Ha scelto in fretta, per imitazione, o ha rimandato del tutto la scelta.
- Prova incertezza, senso di esclusione, a volte rassegnazione.
Ecco perché possiamo dire che in Italia ci sono ancora studenti di serie A e studenti di serie B. Non perché alcuni siano più bravi o più volenterosi. Ma perché non tutti hanno le stesse possibilità di costruire il proprio futuro in modo informato, libero, consapevole.
Non basta dire “avete tutti le stesse possibilità”
In apparenza, l’orientamento c’è. È previsto, è inserito nei documenti ufficiali delle scuole, ci sono linee guida, fondi, iniziative. Eppure, per migliaia di studenti italiani, questa presenza è solo sulla carta. Lo raccontano i dati del report Orientarsi dopo la scuola 2025. Lo confermano le testimonianze raccolte tra chi sta ancora scegliendo, chi ha già scelto, o chi ha rinunciato a farlo. L’orientamento scolastico in Italia esiste, ma non arriva a tutti allo stesso modo. C’è chi ha incontrato docenti appassionati, sportelli ben organizzati, proposte concrete. E c’è chi si è ritrovato da solo, a dover decidere sul proprio futuro con poche informazioni e tanti dubbi.
Il problema non è solo “fare orientamento” o “non farlo”. Il problema è come viene fatto, dove, quando e con quali risorse. Ci sono scuole che riescono a offrire molto e altre che non riescono a offrire nulla. Ci sono territori in cui si lavora in rete con enti locali, università, aziende; e altri in cui ogni insegnante è lasciato solo. Ci sono studenti con genitori laureati, capaci di guidarli in ogni passo, e altri che devono scoprire tutto da sé, con il rischio di perdersi. In un contesto così disomogeneo, non possiamo più raccontarci che le regole siano uguali per tutti. Formalmente sì. Ma nella realtà, continuiamo ad avere studenti che partono in vantaggio e altri che partono in salita, e l’orientamento – invece di riequilibrare – spesso amplifica questa distanza.
Un’occasione mancata?
Se ci pensiamo, è quasi un paradosso. L’orientamento dovrebbe essere uno degli strumenti più efficaci per contrastare le disuguaglianze educative e sociali. Dovrebbe permettere a chi ha meno strumenti di base di scoprire possibilità che non conosceva, di uscire da un orizzonte ristretto, di fare scelte più consapevoli. Invece, oggi funziona spesso al contrario: riceve di più chi è già più attrezzato, mentre chi avrebbe bisogno di maggiore accompagnamento resta ai margini.
E non si tratta solo di giustizia sociale. È anche una questione di efficacia, di efficienza del sistema nel suo complesso. Ogni studente lasciato senza orientamento è un potenziale talento che non verrà valorizzato, una scelta sbagliata che porterà a un abbandono, un percorso sprecato. L’Italia non può più permettersi questa dispersione di energie e possibilità.
Cosa serve davvero
Il report lo suggerisce in modo netto, e anche le voci degli studenti sono molto chiare. Non servono “grandi riforme”. Servono azioni sistematiche, continuative e giuste. Servono:
- orientamento obbligatorio e strutturato in tutti gli istituti, non affidato alla buona volontà delle singole scuole;
- attività differenziate, pensate in modo realistico per chi non proseguirà all’università, con attenzione ai percorsi ITS e professionali;
- formazione seria per docenti e orientatori, che devono essere messi in grado di accompagnare davvero gli studenti, non solo “informarli”;
- presenza di figure esterne, tutor, ex studenti, professionisti che possano raccontare esperienze concrete e credibili;
- inizio anticipato delle attività, già nel terzo o quarto anno delle superiori, per evitare di arrivare tardi.
E poi serve una cosa che nei documenti ufficiali si nomina poco, ma che gli studenti chiedono sempre: ascolto. Non basta parlare agli studenti. Bisogna parlare con loro. Chiedere, osservare, costruire insieme un percorso che tenga conto di chi sono, da dove vengono, cosa sognano e cosa temono.
Non basta dire che tutti hanno le stesse possibilità. Per renderlo vero, dobbiamo costruirle quelle possibilità. Dobbiamo renderle visibili, accessibili, concrete. Dobbiamo far sì che ogni studente, davvero ogni studente, possa scegliere con consapevolezza, dignità e fiducia nel futuro. Solo allora potremo dire che l’orientamento ha fatto il suo lavoro.