Come si diventa chef

Diventare chef non è solo una questione di scuola alberghiera: tra percorsi accademici e formazione sul campo, il viaggio di Claudio Tipa mostra che la cucina è disciplina, passione e contaminazione.

di Anna Castiglioni
27 agosto 2025
1 MIN READ

Ci sono molti modi per diventare chef. Quello più classico è senz’altro il percorso nella scuola alberghiera, l’indirizzo che per definizione mette le basi per una carriera nel settore dell’enogastronomia e dell’ospitalità alberghiera: un bienno di preparazione generale e un trienno di specializzazione. Poi ci sono chef come Claudio Tipa, la cui formazione si è svolta sul campo, tra le cucine di ristoranti sparsi per il mondo: Grecia, Spagna, Giamaica, Mauritius. Un lungo viaggio partito dalla sua casa natìa siciliana e finito – almeno per ora – nella cucina di un resort di lusso, sempre in Sicilia. Executive Chef del Grand Palladium Resort, chef Claudio Tipa ci racconta il suo percorso, fatto di contaminazione, disciplina e progetti legati al territorio.

 

Quando hai capito che volevi diventare chef?

Ho capito che volevo intraprendere questa carriera da piccolo, guardando mia nonna cucinare. Mi affascinava la manualità, il modo in cui trasformava ingredienti semplici in piatti pieni di calore. Ero indeciso tra qualcosa di artistico o la cucina, ma poi ho capito che cucinare è una forma d’arte. È un modo per esprimere sé stessi, emozionare, raccontare storie attraverso i sapori. Da lì è partito tutto.

Che percorso hai seguito per prepararti a questo lavoro? Hai seguito un percorso “classico” o hai fatto scelte fuori dagli schemi? Hai avuto ispirazioni, mentori, modelli?

Il mio percorso è stato tutto tranne che lineare. Ho sicuramente acquisito una base tecnica e fatto esperienze pratiche in cucina, ma ciò che ha davvero plasmato il mio modo di cucinare sono stati i viaggi. Ho avuto la fortuna di visitare e vivere realtà molto diverse: dalla Grecia alla Spagna, dalla Giamaica a Cuba, dal Kenya a Zanzibar fino all’isola di Mauritius. In ognuno di questi posti ho osservato, assaggiato, ascoltato. Mi hanno insegnato che la cucina è cultura, identità, condivisione. Non ho seguito un percorso “classico” e forse è proprio questo che ha dato carattere alla mia visione: ho assorbito influenze, tecniche e ingredienti che oggi convivono nel mio modo di lavorare.

Quali sono state le difficoltà più grandi? E come le hai superate? C’è stata una svolta decisiva nel tuo percorso?

Una delle difficoltà più grandi è stata uscire dalla mia comfort zone: lasciare casa, la famiglia, gli amici e tutto ciò che conoscevo per affrontare nuove esperienze. Lavorare e vivere a stretto contatto con persone di mentalità, culture ed etnie molto diverse dalla mia all’inizio non è stato facile. Ma è proprio questo che mi ha fatto crescere. Mi ha insegnato a mettermi in discussione, ad ascoltare di più, ad adattarmi e ad arricchirmi. Ogni confronto, anche quelli più difficili, è stato un passo in avanti nel mio percorso, sia umano che professionale. La svolta è arrivata quando ho smesso di avere paura del diverso e ho iniziato a vederlo come un’opportunità.

Cosa puoi dire a chi oggi vuole intraprendere questa strada?

Voglio dire che fare lo chef è un mestiere bellissimo, ma anche molto difficile. Non è come si vede in TV, nelle trasmissioni dove tutto sembra veloce, pulito e perfetto. Quello che non si mostra è il lavoro duro, le ore interminabili, la fatica fisica e mentale, la pressione costante. Bisogna davvero avere passione, tanta disciplina e voglia di imparare ogni giorno. Ma se è quello che ami fare, se ti ci riconosci davvero, allora ogni sacrificio avrà senso. È un lavoro che ti forma, ti cambia, ti mette alla prova… e ti dà tantissimo in cambio.

Hai una risorsa (libro, video, podcast, sito, newsletter…) che consiglieresti?

Una risorsa che consiglio è la serie “Chef’s Table” su Netflix. È una delle poche che riesce davvero a raccontare la profondità del lavoro in cucina: non solo i piatti, ma anche le storie personali, i sacrifici, le ispirazioni dietro ogni chef.
Un libro che mi ha colpito è “Kitchen Confidential” di Anthony Bourdain. È crudo, onesto e diretto – racconta senza filtri cosa vuol dire vivere la cucina, soprattutto agli inizi.
E per chi vuole approfondire le cucine del mondo, consiglio il podcast “Gastropod”: unisce cibo, cultura e storia con grande intelligenza e leggerezza.

Com’è il tuo lavoro nel concreto – giornata tipo – oggi? E come lo vedi nel futuro?

Oggi le mie giornate sono intense ma strutturate: c’è il momento di ricerca, quello di preparazione, il servizio, la gestione del team. Ogni giorno cerco di imparare qualcosa di nuovo e migliorare un dettaglio. Per il futuro, mi piacerebbe unire la cucina a progetti più ampi: educazione alimentare, sostenibilità, e magari insegnare ciò che ho imparato.

Ci sono tuoi progetti o idee che vuoi condividere con noi?

Sì, sto lavorando a un progetto che unisce cucina e territorio, con l’obiettivo di valorizzare i piccoli produttori e raccontare storie autentiche attraverso i piatti. È ancora in fase embrionale, ma ci credo molto. E sto anche iniziando a raccogliere idee per un format divulgativo, magari digitale, per raccontare la cucina in modo meno idealizzato e più concreto.

Come si diventa chef

Il percorso per diventare chef può seguire due strade principali: quella scolastica e quella pratica. Chi sceglie la via accademica inizia solitamente con un istituto alberghiero, seguito da corsi professionali o accademie di cucina. Esistono anche master specifici in Culinary Arts o Hospitality con focus sulla ristorazione, spesso associati a stage in ristoranti o hotel di alto livello.

Chi preferisce formarsi sul campo può iniziare come commis (aiuto cuoco) in una brigata e crescere gradualmente attraverso l’esperienza. In questo caso non sono obbligatori esami o titoli di studio formali, ma è fondamentale costruire un curriculum solido, sviluppare tecnica e rigore, e ottenere referenze nel settore. In alcune regioni o contesti professionali, per gestire una cucina o aprire un’attività propria, può essere richiesto il possesso di un certificato HACCP e, in certi casi, l’abilitazione SAB (Somministrazione di Alimenti e Bevande).

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