Come si diventa wrestler?

Nico Narciso è uno dei pochi wrestler italiani ad aver trasformato una passione d’infanzia in una professione. Lo abbiamo incontrato per capire com’è iniziato tutto, qual è il percorso possibile in Italia oggi e cosa significa davvero salire su un ring, ogni weekend, in giro per l’Europa.

di Gabriele Capasso
20 ottobre 2025
1 MIN READ

Quando hai capito che volevi diventare un wrestler?

Credo da subito. Avevo quattro anni e vidi per caso una puntata di wrestling su Eurosport. Fu una specie di folgorazione. Da quel momento non ho mai smesso di desiderarlo: il wrestling è stato il mio sogno più profondo, fin da bambino. E l’ho inseguito finché non è diventato un mestiere.

Che percorso hai seguito per diventare un professionista? Esiste una “via italiana” al wrestling?

Direi che ho fatto un percorso piuttosto classico, per quanto possa esistere un “classico” in Italia. Da noi non è una professione riconosciuta, e quelli che riescono a viverci si contano sulle dita di una mano. Ma come succede nei Paesi dove il wrestling è più radicato, anche io mi sono iscritto a una scuola e ho iniziato ad allenarmi. Con pazienza, tempo e costanza.

Certo, un po’ di “teoria” l’ho studiata: ho guardato video su YouTube, approfondimenti, interviste a professionisti. Ma non parlo delle grandi star come The Rock o John Cena: sono interessanti, ma non spiegano come si diventa lottatori. Invece, ascoltare chi riesce a vivere di wrestling, magari con meno visibilità ma con tanta esperienza, ti dà indicazioni reali, concrete.

Quali sono state le difficoltà più grandi e c’è stato un momento che ha segnato una svolta?

Il momento di svolta è stato nel 2015. Avevo appena fatto il mio primo match e mi ritrovai, per un colpo di fortuna, a fare il ring announcer in un evento con AJ Styles – che oggi è considerato uno dei più grandi wrestler al mondo.

Stare sul ring con lui e altri professionisti mi ha fatto scattare qualcosa dentro. Ho pensato: “Ce la posso fare davvero.” Il giorno dopo chiamai mia madre e glielo dissi. Da quel momento non sono più tornato indietro.

Cosa diresti a chi vuole intraprendere la tua stessa strada oggi? È più facile o più difficile rispetto a quando hai iniziato?

Chi inizia oggi, secondo me, è fortunato. C’è più esposizione, più legittimità, più scuole, più allenatori formati. Anche il wrestling italiano è cresciuto, forse anche un po’ grazie al lavoro mio e di tanti altri.

Ci sono esempi importanti: penso a Francesco Akira, che è arrivato fino alla New Japan Pro-Wrestling e ha dimostrato che partire dall’Italia non è un limite.

Oggi chi si affaccia a questo mondo ha strumenti e contesti più solidi. Ma ci sono due cose che mancano spesso: la pazienza e i contatti.

In che senso?

La pazienza, perché è uno sport faticoso e lento. Non si diventa professionisti in un anno. Io ricordo le ansie che avevo quando mi avvicinavo ai 30, convinto che il tempo fosse scaduto. Invece bisogna lavorare duro anche quando sembra che nessuno ti stia guardando.

I contatti, perché è un ambiente in cui le relazioni contano. Serve farsi vedere, farsi conoscere, aiutare, essere disponibili. Anche montare un ring può essere un passo verso un contratto. Chi lavora bene, chi è affidabile e professionale, viene notato. Ma bisogna mettersi in gioco, con umiltà.

C’è una risorsa che consiglieresti a chi vuole capire meglio questo mondo? Un libro, un video, un sito?

Non sono un grande lettore, ma consiglio la biografia di Bryan Danielson (Daniel Bryan), che racconta la sua scalata dalle indie americane alla WWE, partendo da zero, senza un fisico “da star”. È una storia che dimostra che si può riuscire anche se non si parte con i “numeri” perfetti.

Poi ci sono i video di Al Snow, ex lottatore WWE, che oggi allena e dirige una promotion. I suoi contenuti su YouTube sono i migliori per capire davvero cosa vuol dire fare wrestling: non solo tecnica, ma filosofia, attitudine mentale, stile di vita. Anche la serie Netflix Wrestlers, in cui lui è protagonista, può essere una bella introduzione.

C’è un aspetto del tuo personaggio sul ring che potremmo definire politico. È così?

Sì, ed è una scelta consapevole. Porto in scena un personaggio che prende posizione sui diritti civili, anche in contesti difficili, in Paesi con governi apertamente reazionari. Non sono l’unico, per fortuna. Ci sono tanti wrestler arcobaleno che fanno la stessa cosa: è una risorsa, non un limite.

Certo, prendersi una posizione ha delle conseguenze. Ti chiude alcune porte. Ma per me è importante: il wrestling è una forma d’arte, e come tutte le arti può veicolare messaggi forti. Credo valga la pena farlo.

Che progetti hai oggi? Cosa bolle in pentola?

Continuo a combattere in giro per l’Europa: Olanda, Belgio, Inghilterra… ogni weekend è diverso. In questo momento non ho cinture da difendere, ma non è quello l’obiettivo. Sto anche allenando al Bologna Wrestling Team e sto lavorando su nuove sinergie.

Con i social oggi qualsiasi idea può trasformarsi in progetto. Vedremo cosa succederà. Di sicuro voglio continuare a crescere, migliorare, fare questo lavoro al massimo delle mie possibilità.

Com’è la tua giornata tipo?

Sveglia presto, colazione e subito allenamento. Almeno un’ora al giorno, poi stretching più volte per evitare infortuni – la schiena, soprattutto, è messa a dura prova.

Mi alleno o alleno altri due o tre volte a settimana. Nei weekend parto per le date. Di solito mi organizzo da solo: viaggio, pernottamenti, logistica. Cerco di mangiare bene, proteine pulite, pochi zuccheri. Non è sempre facile, specie quando sei in giro, ma fa parte del lavoro.

Il wrestling sembra uno show, e lo è. Ma dietro c’è organizzazione, sacrificio, cura del corpo, professionalità. Allenamento, alimentazione e rete di contatti sono tutto. Salire sul ring è solo la punta dell’iceberg.

 

L’intervista finisce qui, ma resta una domanda che in molti si fanno, ancora oggi….

Il wrestling è realtà o finzione?

Se te lo stai chiedendo: no, il wrestling non è finto. O meglio: solo il finale lo è.

Il risultato di un match viene stabilito prima dell’incontro, in accordo con il promoter dello show. Chi vince, quanto deve durare il match e se ci sono elementi narrativi da inserire (una rivalità, una storyline in corso) vengono decisi a tavolino. Il resto, però, è tutto reale: sudore, fatica, dolore, e soprattutto preparazione.

I wrestler sono performer, sì, ma sono anche atleti. Prima di ogni show, si confrontano nel backstage: parlano, si mettono d’accordo, si scambiano idee. A volte c’è il tempo per costruire il match nei dettagli, altre volte – causa ritardi, treni persi, voli cancellati – bisogna improvvisare tutto in dieci minuti. Per questo l’improvvisazione è una competenza fondamentale.

Come racconta Nico Narciso, lavorare negli show per bambini è stata una scuola incredibile, perché richiede di reagire in tempo reale a quello che succede. Il pubblico chiede, risponde, partecipa. E il wrestler deve adattarsi, cambiare al volo, improvvisare anche le mosse più spettacolari.

Certo, si collabora: l’obiettivo non è farsi male, ma mettere in scena qualcosa che emozioni. Ma i colpi si prendono davvero. I corpi sono veri. Le cicatrici pure.

Come diceva Al Snow, storico lottatore e oggi trainer:

“L’unica cosa finta nel wrestling… è il finale.”

SULL'AUTORE
Gabriele Capasso è un giornalista, consulente e produttore di contenuti con una lunga esperienza nel giornalismo digitale. Ha lavorato per quasi vent’anni in Blogo.it, dove ha ricoperto ruoli di crescente responsabilità: da managing editor dell’area sport a vicedirettore, fino a diventare direttore responsabile dal 2020 al 2025. In questi anni ha coordinato team editoriali, gestito strategie SEO, pianificazione a lungo termine e attività di formazione, con particolare attenzione all’evoluzione del giornalismo online e ai modelli di business.
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