Dario Sigari è alto due metri e dodici, è quasi certamente l’archeologo più alto del mondo (manca una statistica in merito, ma ci lavoreremo), e quando entra in aula all’Università Statale di Milano, dove ha cominciato studiando Beni Culturali e dove oggi insegna, deve stare attento a non battere la testa sullo stipite. Questo però non gli impedisce di infilarsi in pertugi stretti o in grotte anguste alla ricerca di reperti di arte paleolitica, la sua autentica passione, oltre che l’oggetto del suo lavoro accademico.
Quando hai capito che volevi diventare archeologo?
Non c’è stato un momento preciso in cui ho capito che volevo diventare archeologo. Se torno indietro nel tempo, ricordo che da piccolo desideravo fare il veterinario. Una cosa un po’ surreale, considerando che oggi ho assorbito uno stile di vita decisamente più cittadino. Gli animali, che un tempo adoravo, ora mi mettono una certa diffidenza. Ma davvero, da bambino volevo fare il veterinario.
Poi, verso la quinta elementare, mi ricordo un lampo: l’idea di studiare “le cose antiche”. Un pensiero isolato, che però è rimasto. Al liceo quell’interesse è riemerso, in un contesto anche piuttosto curioso: durante un’interrogazione di letteratura, ho pensato tra me e me “troverò io quella pergamena che smentirà tutto ciò che ci stanno insegnando!”. Era quasi un moto di ribellione.
Ecco, lì ho iniziato a capire che l’archeologia poteva essere la strada giusta. Mi accorgevo che metteva insieme tanti miei interessi: storia, filosofia, lingue, scienze. Tutto trovava un posto dentro l’archeologia.
Che percorso hai seguito per prepararti a questo lavoro (studio, corsi, pratica…)? Hai seguito un percorso “classico” o hai fatto scelte fuori dagli schemi? Hai avuto ispirazioni? Hai avuto mentori, coach, modelli?
Il percorso che mi ha portato a diventare archeologo preistorico si è costruito quasi tutto in ambito universitario. Quello che ho fatto prima – come il liceo scientifico – ha dato un’impostazione allo studio, ma non ha inciso davvero sulle mie scelte successive.
All’università (Beni Culturali) ho incontrato un professore di preistoria che teneva un modulo sull’arte preistorica. Quel corso è stato la scintilla. Da lì ho capito che era quello che volevo studiare e ho cominciato a cercare occasioni per rafforzare le mie competenze.
Sono andato in Val Camonica, alla scuola per lo studio delle incisioni rupestri. È stata un’esperienza fondamentale, mi ha dato contatti, metodo, strumenti.
Poi ho scelto Ferrara per la magistrale: uno dei centri più riconosciuti per lo studio del Paleolitico, sia in Italia che a livello internazionale. Da lì ho avuto l’opportunità di un dottorato europeo, che mi ha portato a Tarragona e poi a Vitoria-Gasteiz.
Un anno chiave è stato il 2014: ho conosciuto Camille Bourdier, una collega francese con cui ho lavorato in Francia durante il post-doc al CNRS di Tolosa e con cui collaboro ancora oggi.
In quegli anni ho partecipato anche al congresso internazionale di arte rupestre “IFRAO”, che mi ha messo in contatto con tanti studiosi del settore.
Due figure sono state decisive: Angelo Fossati, che dirige la scuola archeologica dedicata allo studio dell’arte rupestre in Val Camonica – mi ha accompagnato fin dalla triennale, anche proponendomi un primo lavoro di ricerca in Azerbaijan – e Marcos García Diez, mio relatore di dottorato, che mi ha formato dal punto di vista metodologico.
Quali sono state le difficoltà più grandi? E come le hai superate? C’è stata una svolta decisiva nel tuo percorso?
La difficoltà principale è stata una: in Italia nessuno studiava in modo sistematico l’arte paleolitica.
Certo, c’erano studi sul Paleolitico e qualche lavoro sull’arte, ma mai ricerche sull’arte paleolitica condotte in maniera sistematica e completa. Così oggi questo nuovo approccio sta apportando importanti novità sul contesto italiano. All’estero, in Francia e Spagna, esiste una tradizione solida. Da noi, no.
Nel tempo ho dovuto accettarlo. Oggi ho la fortuna di lavorare sui complessi più importanti d’Italia, ma ci sono voluti anni e tanta testardaggine.
E così, ora le richieste per studiare questo materiale sono tantissime. Spero che la mia posizione in università apra la strada anche a futuri giovani ricercatori
Le difficoltà le ho superate anche grazie alla conoscenza delle lingue straniere. Ho sempre amato studiarle: l’inglese, lo spagnolo che oggi parlo quasi ogni giorno, e un po’ di francese. Questo mi ha permesso di costruire relazioni internazionali, di accedere a bibliografie diverse, di crescere.
Il 2014 è stato l’anno della svolta: ho deciso di partecipare da solo a un congresso in Francia, a Les Eyzies de Tayac, capitale della preistoria. Lì ho conosciuto studiosi che per me erano dei maestri.
E lì ho incontrato anche Camille Bourdier. Quell’anno è stato decisivo.
Cosa puoi dire a chi oggi vuole intraprendere strada?
A chi vuole intraprendere questo percorso, soprattutto nello studio dell’arte paleolitica, direi prima di tutto di non lasciarsi scoraggiare.
Ci sono ancora molte barriere, ma meno rispetto a quando ho iniziato. E bisogna ignorare certi discorsi da “conservatori”, del tipo: “Tanto non c’è lavoro in archeologia”.
Spesso a dirlo sono proprio quelli che ce l’hanno fatta. È un atteggiamento da chi non vuole vedere i giovani entrare nel mercato del lavoro.
È un mestiere che richiede pazienza, e purtroppo anche risorse. Se non hai soldi, devi avere una cocciutaggine fuori dal comune.
E poi: non precluderti le esperienze all’estero. Non per il fascino dell’esotico, ma per la crescita che ti danno. Ti obbligano ad arrangiarti, a imparare lingue, ad accedere a bibliografie nuove.
Aprono la mente, ti mettono alla prova. E ti fanno diventare una persona diversa.
Quindi: testa dura e pazienza. Ce la si fa.
Hai una risorsa (libro, video, podcast, sito, newsletter…) che consiglieresti?
Risorse o consigli specifici? In realtà no: avrei dei suggerimenti un po’ troppo “settoriali” forse.
La risorsa migliore, secondo me, è il sito archeologico stesso.
Andare, guardare, provare a immaginare. Provare a dare vita a quello che oggi appare sepolto, distrutto, inerte.
Mi è successo in Cina, a Xi’an, davanti all’esercito di terracotta.
Sì, la Fossa 1 è spettacolare, ma ciò che mi ha colpito di più sono state le altre aree di scavo, con i resti delle strutture coi loro tetti crollati, le terrecotte emergenti dai sedimenti.
Lì è scattato qualcosa nella mente, immaginando come doveva essere l’area monumentale al tempo della sua realizzazione.
Se riesci quindi ad immaginare com’era quel sito quando era usato– anche solo un po’ – quell’esperienza vale più di qualsiasi podcast o video. È lì che succede qualcosa di altamente formativo nella comprensione del passato.
Com’è il tuo lavoro nel concreto – giornata tipo – oggi? E come lo vedi nel futuro?
Il mio lavoro oggi è molto diverso rispetto a quando ero solo in laboratorio.
Da quando sono entrato in università, le incombenze amministrative assorbono tantissimo tempo.
Quando sei responsabile di un progetto, la ricerca pura si riduce. Devi scrivere progetti, preventivi, gestire spese, fare report, coordinare le persone. Tutto questo sacrifica inevitabilmente il tempo per la ricerca sul campo.
Quando riesco a dedicarmi alla ricerca, se sono sul campo, la giornata è scandita da fasi precise: spostamenti, documentazione fotografica e grafica, rilievi, appunti.
Poi si torna in laboratorio, si digitalizza tutto, si analizzano i dati. Oppure si lavora direttamente sui materiali, con microscopio, macchina fotografica, compilazione di registri, tabelle, osservazione e classificazione.
Poi c’è l’elaborazione, il tentativo di capire cosa ci dicono quei dati. E, se il risultato ha valore, si scrive una pubblicazione.
Scrivere è parte del lavoro scientifico, ma anche un modo per condividere qualcosa di utile, che può avere impatto anche oggi.
Infine c’è la didattica: preparare i corsi, elaborare i contenuti, stimolare gli studenti.
E c’è il futuro: posso immaginare uno sviluppo di questo lavoro con l’introduzione di nuove tecnologie, metodi sempre meno invasivi, analisi avanzate… già oggi lavoriamo su pigmenti, datazioni, DNA.
Ma lo scavo sul campo, l’osservazione diretta: quelle non le sostituirà mai nessuna macchina.
Anche l’AI, per quanto potente, non potrà mai sostituire lo sguardo critico dell’essere umano. E spero non succeda mai.
Ci sono tuoi progetti o idee che vuoi condividere con noi?
Tra i progetti che seguo, uno dei principali è quello che che dirigo nel Gobustan, in Azerbaijan. È lì che ho iniziato, con la tesi triennale, e ora ci sono tornato da direttore di progetto di ricerca.
È un progetto importantissimo: siamo in una zona di contatto tra Europa e Asia, un’area chiave per comprendere le dinamiche culturali tra due continenti.
Lì, su oltre 1000 rocce, ci sono più di 7000 incisioni rupestri.
Durante gli scavi in un’area protetta abbiamo trovato i resti di un bambino di 9000 anni fa.
È un dato che è stato reso pubblico, ma il resto è ancora in fase di studio.
Oltre al Gobustan, sto lavorando su complessi di arte paleolitica in Italia: Riparo Dalmeri, Arene Candide, Riparo Tagliente, Grotta Romanelli.
E stanno emergendo nuovi elementi: sto studiando anche l’arte di Grotta Polesini, e continuo a lavorare sui materiali del Riparo Dalmeri.
Tutti siti fondamentali.
Quello che sta emergendo, anche grazie alla collaborazione con colleghi francesi e spagnoli, è che l’Italia ha un patrimonio che si inserisce in un sistema culturale più ampio, europeo.
Serve più attenzione: molti materiali sono stati studiati in passato, ma mai davvero approfonditi.
Rimetterci mano oggi vuol dire confermare intuizioni, articolare nuove ipotesi.
Ecco, questo è il futuro della ricerca archeologica che mi interessa.
Cosa fa un archeologo?
L’archeologo cerca di capire chi eravamo, come vivevamo, cosa pensavamo. Lo fa partendo da quello che è rimasto: oggetti, ossa, resti di capanne o di città, segni incisi sulla pietra. Non si tratta solo di scavare, ma di osservare, interpretare, collegare i puntini tra passato e presente.
Ci sono archeologi che si occupano di epoche recenti, altri che si spingono fino alle origini dell’umanità. Dario Sigari, protagonista di questa intervista, studia l’arte rupestre: disegni, incisioni, simboli lasciati sulle rocce da persone vissute migliaia e migliaia di anni fa. Il suo lavoro è fatto di studio, di pazienza, di lunghe camminate in mezzo alla natura. Ma soprattutto di attenzione: perché anche un graffio minuscolo può nascondere una storia enorme.

