BES (Bisogni Educativi Speciali), tutto quello che c’è da sapere

Ci sono bambini e ragazzi che entrano in classe con lo zaino un po’ più pesante degli altri. Non parliamo solo di libri o quaderni: parliamo di pensieri, di fatiche invisibili, di storie complesse che non sempre trovano parole per essere raccontate.

di Alpha Orienta
26 giugno 2025
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Alcuni hanno difficoltà a leggere, altri a concentrarsi, altri ancora arrivano da un paese lontano e cercano di orientarsi in una lingua tutta nuova. C’è chi ha una diagnosi, chi ha solo bisogno di un po’ più di tempo, di uno sguardo in più. E poi ci sono loro, gli insegnanti, che ogni giorno provano a tenere insieme tutto questo – con pazienza, creatività, dubbi e tanto cuore.

Parlare di BESBisogni Educativi Speciali – significa proprio riconoscere tutto questo. Non si tratta di classificare, né di dividere gli alunni in categorie. Si tratta, piuttosto, di accorgersi che imparare non è uguale per tutti, che non esiste una “normalità” da cui partire, ma un insieme di diversità che la scuola deve accogliere, comprendere e valorizzare.

La normativa ci aiuta, certo. La Direttiva del 27 dicembre 2012 del MIUR ci offre parole e strumenti. Ma prima della burocrazia c’è qualcosa di più profondo: il desiderio di non lasciare indietro nessuno. Di dare a ogni alunno – e a ogni alunna – la possibilità di sentirsi parte. Non solo “inclusi”, ma davvero visti. Perché quando un bambino si sente riconosciuto, comincia a fiorire. E quando una scuola si prende cura dei suoi alunni più fragili, diventa più forte per tutti.

Questo approfondimento nasce proprio da qui. Dal bisogno di riflettere su cosa significhi oggi educare in modo inclusivo, su quali siano le sfide, gli strumenti, ma soprattutto le relazioni che rendono possibile una scuola più giusta, più umana, più vera.

Classificazione dei BES

Immagina una classe. Dentro ci sono venti, venticinque, a volte anche trenta alunni. A prima vista sembrano tutti uguali: stessi banchi, stesso orario, stessi libri. Ma in realtà ognuno di loro è un piccolo universo e si va da chi apprende in fretta a chi ha bisogno di più tempo, da chi ama parlare a chi si rifugia nel silenzio, da chi si muove senza sosta a chi fa fatica ad alzare lo sguardo.

I Bisogni Educativi Speciali non sono una categoria rigida, ma piuttosto una lente per guardare oltre, per vedere ciò che normalmente sfugge. Dietro la sigla BES si raccolgono situazioni diverse, che hanno tutte un punto in comune: la necessità di un’attenzione educativa speciale, personalizzata.

Secondo la Direttiva ministeriale del 2012, possiamo individuare tre grandi aree all’interno dei BES:

1. Disabilità

Sono quei casi in cui è presente una diagnosi certificata secondo la Legge 104/1992. Parliamo, ad esempio, di disabilità intellettive, motorie o sensoriali. Questi alunni hanno diritto a un PEI (Piano Educativo Individualizzato), redatto da un’équipe che coinvolge famiglia, scuola e specialisti. Qui la personalizzazione dell’insegnamento è profonda, strutturata, continua. Ma oltre ai documenti, c’è una verità più grande: ogni piccolo traguardo è una conquista enorme, e ogni passo avanti è il frutto di un’alleanza tra adulto e bambino, fatta di fiducia, tenacia e affetto.

2. Disturbi evolutivi specifici

Ci sono bambini che leggono, ma le lettere sembrano ballare sul foglio. Altri scrivono, ma le parole escono storte, incerte, come se ogni riga fosse una montagna da scalare. Alcuni si perdono nei numeri, altri fanno fatica a restare seduti, a concentrarsi, a seguire un discorso fino in fondo. Non è questione di impegno. Non è disinteresse o svogliatezza. È che la scuola, spesso, parla una lingua che loro non riescono a sentire chiaramente.

In questa area rientrano gli studenti con Disturbi Specifici dell’Apprendimento – come dislessia, disgrafia, disortografia, discalculia – ma anche quelli con difficoltà legate al linguaggio, all’attenzione (come l’ADHD), alla coordinazione motoria, al comportamento. Sono difficoltà che non si vedono subito, ma che segnano il percorso scolastico in profondità. La legge 170 del 2010 ha dato un nome e un riconoscimento a queste fatiche, aprendo la strada a strumenti e strategie pensate su misura.

Per questi ragazzi non si parla di disabilità, ma il rischio di sentirsi “fuori posto” è reale. È per questo che la scuola può – e deve – intervenire con delicatezza e competenza, mettendo in atto un PDP, un Piano Didattico Personalizzato, che non è una scorciatoia, ma un modo per costruire un sentiero alternativo, più accessibile, più umano.

Dietro ogni sigla c’è una storia. C’è un bambino che si nasconde quando si legge ad alta voce. Una ragazza che si convince di “non essere portata”. Un adolescente che si arrabbia prima ancora di provare. Il nostro compito? Fermarci, ascoltare, e cercare la chiave per entrare nel loro mondo. Perché ognuno ha diritto di imparare, ma soprattutto di farlo sentendosi accolto. E se il mondo a volte non parla la loro lingua, siamo noi adulti che dobbiamo imparare la loro.

3. Svantaggio socio-economico, linguistico e culturale

È forse l’area più sottile, quella meno visibile, ma altrettanto importante. Alcuni studenti non hanno una diagnosi, né una certificazione, ma vivono condizioni che ostacolano il loro apprendimento: difficoltà economiche, contesti familiari fragili, migrazione recente, adozione, disagio emotivo o psicologico. In questi casi, non servono etichette, ma sensibilità e ascolto. Anche qui può essere attivato un PDP, e soprattutto una didattica che sappia accogliere, motivare, costruire ponti. Perché nessuno dovrebbe sentirsi fuori posto, né troppo indietro per essere raggiunto.

Parlare di classificazioni può sembrare un esercizio tecnico, ma in realtà è un atto di cura. Serve a non dimenticare nessuno. Serve a riconoscere il diritto di ogni studente ad apprendere nel modo che gli è più vicino, con dignità, rispetto e fiducia.

Le leggi sui Bisogni Educativi Speciali

L’inclusione a scuola non può e non deve essere lasciata al caso o alla fortuna. Deve essere garantita, tutelata, costruita su basi solide. E quelle basi, nel nostro sistema scolastico, sono anche le leggi che ne riconoscono l’importanza e ne tracciano il percorso.

Ogni norma che riguarda i Bisogni Educativi Speciali nasce da una scelta: quella di non voltarsi dall’altra parte. Di riconoscere che ci sono alunni che, per motivi diversi, rischiano di restare indietro. E che la scuola ha il dovere – prima ancora che il compito – di andare loro incontro.

Facciamo un breve excursus tra i riferimenti normativi fondamentali. In particolare troviamo:

  • Legge 104/1992, che è quella che riconosce il diritto delle persone che hanno una disabilità a essere pienamente incluse sia nella vita sociale sia in quella scolastica. Di cosa tratta? Di integrazione, di supporto, di rispetto della dignità. Per esempio, proprio grazie a questa legge, gli alunni con disabilità hanno diritto a un PEI (Piano Educativo Individualizzato) e all’insegnante di sostegno.
  • Legge 170/2010, che riconosce i Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) come condizioni che meritano attenzione e strumenti adeguati. Non si tratta di malattie, ma di modi diversi di apprendere. E la scuola, attraverso il PDP (Piano Didattico Personalizzato), può adattare metodologie, verifiche, tempi e strumenti per permettere a ogni studente di esprimere davvero il proprio potenziale.
  • Direttiva MIUR del 27 dicembre 2012: questa direttiva ha avuto il coraggio di allargare lo sguardo. Non solo disabilità, non solo DSA, ma anche quegli alunni che vivono svantaggi socio-economici, culturali o linguistici. Alunni che non hanno certificazioni, ma che vivono situazioni complesse, spesso invisibili. È qui che nasce il concetto moderno di BES, come categoria flessibile e attenta alla persona, non alla diagnosi.
  • Circolare MIUR n. 8 del 6 marzo 2013: una sorta di guida operativa per le scuole, che spiega come intervenire nei casi di BES non certificati, come predisporre i PDP, come coinvolgere le famiglie e valorizzare il lavoro in team. Una circolare che invita alla concretezza e alla collaborazione.
  • Linee guida per l’inclusione scolastica: nel tempo, il Ministero ha prodotto documenti che aiutano le scuole a costruire ambienti realmente inclusivi. Non solo con strumenti didattici, ma anche con una cultura dell’accoglienza e della cura educativa.

Ogni norma, ogni direttiva, ogni circolare – se letta con attenzione – ci ricorda una cosa semplice ma potente: la scuola è di tutti, ma soprattutto è per ciascuno. E la legalità, in questo caso, è anche giustizia educativa.

Strumenti di intervento e personalizzazione

C’è un momento, nella vita di un insegnante, in cui si capisce che la stessa lezione, nello stesso modo, per tutti… non basta. Perché alcuni alunni non partono dalla stessa linea di partenza. Alcuni portano zaini invisibili, pieni di ostacoli. E allora serve qualcosa di più: serve una scuola capace di piegarsi senza spezzarsi, di cambiare strada pur mantenendo la meta.

Per questo esistono strumenti concreti che aiutano a personalizzare il percorso scolastico, a renderlo più accessibile, più giusto. Non sono scorciatoie, né favoritismi: sono atti di giustizia educativa. Perché dare a ciascuno ciò di cui ha bisogno non significa trattare tutti allo stesso modo, ma con la stessa dignità.

Il PDP – Piano Didattico Personalizzato

Il PDP è una sorta di mappa disegnata a misura di studente. Viene attivato per chi ha DSA, ADHD, altri disturbi evolutivi o si trova in situazioni di svantaggio. Non è una diagnosi, ma un progetto condiviso, costruito insieme: famiglia, insegnanti, eventualmente specialisti.

Nel PDP si definiscono obiettivi, strumenti compensativi, misure dispensative, tempi personalizzati, modalità di verifica alternative. Ma la cosa più importante è che si parte dalla persona, non dalla difficoltà. È un modo per dire: “Ti vedo. So che fai fatica. Ma insieme possiamo trovare un modo che sia anche tuo per imparare.”

Il PEI – Piano Educativo Individualizzato

Il PEI è il cuore del progetto per gli alunni con disabilità certificata secondo la Legge 104/92. Non riguarda solo l’ambito didattico, ma anche quello relazionale, emotivo, comunicativo. È un progetto di vita scolastica, che coinvolge docenti, famiglia, personale di sostegno, educatori, terapisti.

Il PEI si costruisce in equipe, attraverso momenti di dialogo e osservazione. Non è un documento fisso, ma una strada che si adatta al passo di chi cammina, con lo scopo di accompagnare l’alunno non solo a imparare, ma a vivere la scuola come un luogo sicuro, dove sentirsi accolto, valorizzato, felice.

Didattica inclusiva e metodologie flessibili

Oltre ai documenti, c’è lo sguardo quotidiano. Una didattica inclusiva non è fatta solo di PDP e PEI, ma di piccoli gesti: cambiare il modo di spiegare, proporre materiali diversi, dare più tempo, alternare linguaggi. Vuol dire fare spazio alle intelligenze multiple, permettere a ognuno di sentirsi capace, utile, protagonista.

Significa anche saper valutare in modo equo, non premiando chi corre più veloce, ma chi riesce a compiere il suo personale percorso con impegno e costanza.

Questi strumenti non sono obblighi burocratici: sono segni di un’educazione che sceglie di vedere l’altro nella sua unicità, non nei suoi limiti. Sono le mani con cui la scuola dice a ogni alunno: “Io ci sono. Cammineremo insieme. Non sarai lasciato indietro”.

Il ruolo del docente e del team educativo

Ci sono mestieri che si fanno con le mani. Altri con la testa. Quello dell’insegnante si fa con tutto il corpo, ma soprattutto con il cuore. Non c’è manuale che basti, né protocollo che contenga la complessità di una classe. Il docente deve essere in grado di vedere ogni alunno per quello che è, non solo per quello che fa. Quando si ha a che fare con alunni con BES, bisogna sapersi comportare in modo diverso, saper ascoltare, prima di tutto, e anche agire di conseguenza con consapevolezza e capacità di adattamento. Sono fondamentali:

  • L’osservazione, che è il primo vero gesto di cura. Tutto parte da qui: guardare davvero. Il docente è spesso il primo a notare che qualcosa non va. Un bambino che si distrae facilmente, una ragazza che evita di leggere, un alunno che non partecipa mai. L’osservazione non è giudizio, ma attenzione. È il primo passo verso l’individuazione di un bisogno educativo speciale.
  • La collaborazione con i colleghi, con la famiglia e con gli specialisti: il team docente deve lavorare insieme, confrontarsi, costruire ipotesi. Ogni piccolo dettaglio può diventare prezioso quando si tratta di capire come aiutare un ragazzo a sentirsi parte. Inoltre è essenziale il dialogo con la famiglia per costruire una fiducia reciproca, che permetta di condividere difficoltà, ma anche risorse, sogni, possibilità. In certi casi poi i docenti devono rapportarsi anche con neuropsichiatri, logopedisti, psicologi, educatori

Il Consiglio di classe come comunità educante

Nessun alunno con BES dovrebbe dipendere solo dal buon cuore di un singolo insegnante, perché l’inclusione deve un progetto condiviso, che riguarda tutto il Consiglio di classe. Quando il team educativo funziona, si respira. La scuola smette di essere un luogo rigido e diventa uno spazio vivo, dove si cerca insieme, si prova, si sbaglia, si riparte.

La formazione continua: una scelta di responsabilità

Infine, c’è un aspetto spesso trascurato ma cruciale: la formazione degli insegnanti. L’inclusione non si improvvisa. Richiede conoscenze, strumenti, aggiornamento. Ma soprattutto richiede l’umiltà di continuare a imparare, anche dopo anni di esperienza. Perché ogni nuovo alunno con un BES ci costringe a rimetterci in discussione, a cambiare prospettiva, a rinnovare lo sguardo.

Essere insegnanti oggi significa tante cose. Ma soprattutto significa credere che ogni alunno possa farcela, se messo nelle condizioni giuste. E quando questo accade – quando un ragazzo in difficoltà comincia a sentirsi capace, visto, accolto – allora sì, la scuola sta davvero facendo il suo lavoro.

Il ruolo della scuola e della comunità

Una scuola da sola può fare molto. Ma una scuola che si sente parte di una comunità più grande può fare miracoli.

L’inclusione non è soltanto una metodologia, né un insieme di strumenti didattici. È una cultura, un modo di stare insieme, un progetto collettivo. Quando una scuola abbraccia davvero la sfida dei BES, lo fa come ambiente vivo, come spazio che respira empatia, accoglienza e responsabilità condivisa. Non si tratta di avere tutte le risposte, ma di non smettere mai di cercare insieme.

La scuola come ambiente inclusivo

Una scuola che funziona è una scuola che fa sentire ogni alunno al proprio posto, senza chiedergli di essere qualcun altro. È un luogo dove si sbaglia senza paura, si chiede aiuto senza vergogna, si impara con libertà. Ma tutto questo non accade da sé: serve cura, organizzazione, volontà.

Significa, per esempio, rivedere gli spazi per renderli accessibili. Ripensare i tempi, le modalità di verifica, i materiali. Ma anche costruire un clima relazionale dove ognuno – studenti, docenti, collaboratori – si senta parte di qualcosa che ha valore. Una scuola accogliente è una scuola che non giudica, ma accompagna.

I gruppi di lavoro per l’inclusione

Accanto all’attività didattica quotidiana, ci sono strutture organizzative pensate per sostenere il lavoro inclusivo. Tra queste sono fondamentali i Gruppi di lavoro per l’inclusione (GLI), dei luoghi di confronto, ascolto e progettazione, in cui insegnanti, dirigenti, referenti e altre figure professionali riflettono insieme sui bisogni della scuola, delle classi, dei singoli alunni. È qui che si costruiscono strategie, si condividono buone pratiche, si individuano le risorse disponibili.

Ma c’è anche un altro gruppo importante, il GLO (Gruppo di lavoro operativo), che si attiva per ciascun alunno con disabilità. Qui si incontrano famiglia, insegnanti curricolari e di sostegno, figure sanitarie e sociali. È una rete che si stringe intorno al bambino, per non lasciarlo mai solo.

Territorio e alleanze educative

Una scuola non è un’isola. Vive dentro un territorio, respira con le famiglie, i servizi sociali, le associazioni, gli enti locali. E l’inclusione funziona davvero solo quando si lavora insieme.

Pensiamo a quanto può fare una collaborazione attiva con i centri di salute mentale, con i servizi di neuropsichiatria, con gli educatori territoriali, con i mediatori culturali. Ogni figura, ogni competenza può diventare una risorsa preziosa, se la scuola ha il coraggio di aprirsi e di chiedere aiuto.

E poi ci sono le famiglie: non solo quelle degli alunni con BES, ma tutte. Perché un contesto educativo inclusivo si costruisce anche fuori dall’aula, nelle parole che i genitori scambiano tra loro, nel modo in cui la diversità viene raccontata, vissuta, rispettata.

Una comunità che educa è una comunità che si prende cura

Una scuola davvero inclusiva non è quella che risolve tutto, ma quella che non lascia soli né gli alunni, né i docenti, né le famiglie. È quella che prova, che sbaglia, che riparte. Che dice: “Siamo qui, insieme”. È lì che nasce la vera forza dell’inclusione: nella relazione, nella corresponsabilità, nella fiducia reciproca. E quando una comunità educante funziona, succede qualcosa di semplice e straordinario: ogni bambino trova un posto dove sentirsi a casa. E da quella casa, può cominciare davvero a crescere.

Criticità e sfide attuali

Parlare di inclusione è bello. È giusto. È necessario. Ma farla davvero, ogni giorno, è un’altra cosa. Non sempre è semplice. Non sempre si hanno i mezzi, il tempo, le energie. La scuola italiana ha fatto grandi passi avanti nel riconoscere e tutelare i Bisogni Educativi Speciali, ma la realtà – quella concreta, fatta di aule affollate, risorse scarse e burocrazia – a volte si scontra con le buone intenzioni. E allora, per essere onesti, è giusto dirlo: inclusione non è una parola magica. È una sfida. E anche una fatica.

Le risorse umane ed economiche sono spesso insufficienti

Uno degli ostacoli più grandi è la mancanza di risorse adeguate. Classi numerose, organici ridotti, ore di sostegno non sempre sufficienti. E poi le figure specialistiche che mancano: educatori, assistenti alla comunicazione, mediatori. A volte ci sono sulla carta, ma non arrivano in tempo. Altre volte semplicemente non ci sono. E quando un insegnante ha venticinque alunni, tre con BES, uno con disabilità, e poche ore per programmare… l’inclusione rischia di diventare un ideale irraggiungibile.

La formazione dei docenti è ancora troppo disomogenea

La volontà non manca, ma spesso gli insegnanti non sono messi nelle condizioni di sapere come agire. La formazione sui BES non è sempre aggiornata, né distribuita equamente. Alcuni docenti hanno alle spalle percorsi solidi, altri si trovano a improvvisare, cercando risposte da soli, nel tempo che resta. Ma la verità è che nessuno dovrebbe essere lasciato solo ad affrontare la complessità dell’inclusione. Serve formazione continua, concreta, vicina alla realtà delle classi. Serve una comunità professionale che accompagni, non che giudichi.

La burocrazia può diventare un ostacolo

PDP, PEI, relazioni, verbali, griglie, modelli. I documenti sono importanti, certo. Ma quando il tempo per scriverli supera quello per vivere l’inclusione, qualcosa non funziona. Troppa burocrazia rischia di far perdere di vista ciò che conta davvero: la relazione educativa. Gli insegnanti spesso si trovano a navigare tra scadenze, piattaforme, moduli, mentre avrebbero bisogno di tempo per osservare, ascoltare, progettare. Un tempo umano, non solo amministrativo.

Inclusione reale o inclusione di facciata?

È forse la domanda più scomoda, ma anche la più vera: l’inclusione che facciamo è autentica o solo formale? A volte si scrivono PDP perfetti, ma poi in classe le strategie non si applicano. A volte l’alunno con BES ha il suo piano personalizzato, ma si sente comunque “diverso”, escluso, etichettato. Altre volte ancora, l’inclusione sembra funzionare… finché non arriva la verifica, e tutto si ferma davanti a un voto che non tiene conto del percorso fatto. Inclusione vera non è solo un progetto scritto bene: è far sentire ogni alunno parte integrante della vita scolastica. È costruire relazioni autentiche, dare valore all’impegno, non solo al risultato.

Eppure, la sfida vale la pena

Nonostante tutto, nonostante la fatica, i limiti, le incertezze, l’inclusione è ancora la strada giusta. Non perché sia facile, ma perché è giusta. Ogni volta che un bambino sorride perché finalmente si sente capito, ogni volta che un ragazzo fragile prende parola e viene ascoltato, succede qualcosa di potente: la scuola diventa davvero un luogo di crescita per tutti. E allora sì, vale la pena. Vale tutta la fatica del mondo.

Buone pratiche e prospettive future

L’inclusione, quando è autentica, non fa rumore, ma cambia tutto. Accade quando un insegnante riesce a spiegare la matematica in modo che anche chi ha sempre detto “non sono portato” finalmente capisce. Accade quando un compagno si siede accanto a un alunno con disabilità e lo aiuta, non per dovere, ma per affetto. Accade quando un ragazzo straniero, all’inizio spaesato e timido, si sente chiamato per nome e scopre che quel nome ha un posto, lì, in quella classe.

Buone pratiche che funzionano

Ma cosa sono, concretamente, le buone pratiche? Di certo non formule magiche, ma scelte quotidiane, concrete, spesso nate dal bisogno di rispondere a una difficoltà reale. Vediamo allora alcuni esempi:

  • Didattica cooperativa: quando gli alunni lavorano in gruppo, aiutandosi e valorizzandosi a vicenda, i confini tra “chi sa” e “chi fatica” si sfumano. Tutti diventano parte attiva del processo.
  • Materiali personalizzati e multimediali: l’uso di strumenti digitali, immagini, audio, mappe concettuali può fare la differenza per chi ha difficoltà di lettura o comprensione. Ma aiuta anche tutti gli altri, perché ciò che rende chiaro per uno, spesso rende chiaro per tutti.
  • Tutoraggio tra pari: affiancare un alunno in difficoltà a un compagno che lo aiuti, con delicatezza, può generare relazioni significative e un senso di responsabilità diffuso nella classe.
  • Laboratori emotivi e relazionali: attività che non puntano solo alle competenze cognitive, ma anche all’ascolto, all’empatia, alla gestione delle emozioni. Perché stare bene viene prima dell’imparare.
  • Uso di strumenti compensativi e dispensativi non come “privilegi”, ma come ponti che permettono di attraversare il fiume, anche se si ha uno zaino più pesante.

Prospettive future: sognare in modo concreto

Il futuro dell’inclusione passa da scelte chiare, coraggiose e sostenibili. Ecco alcune direzioni in cui guardare con speranza:

  • Investire nella formazione vera, continua, pratica: perché un docente ben formato è un docente più sereno e più efficace.
  • Valorizzare il lavoro d’équipe, anche riconoscendo il tempo necessario per confrontarsi e costruire insieme.
  • Aumentare le risorse: non solo in termini economici, ma anche in termini di persone, di tempo, di attenzione politica.
  • Integrare sempre di più scuola e territorio, creando reti educative che supportino le fragilità e valorizzino i talenti nascosti.
  • Ascoltare gli studenti: perché spesso sono loro a sapere cosa serve davvero. Diamo loro voce, fiducia, spazio.

L’inclusione come orizzonte condiviso

Non c’è una ricetta unica. Ogni scuola ha la sua storia, i suoi limiti, le sue possibilità. Ma una cosa è certa: dove c’è una comunità scolastica che ci crede, qualcosa di buono accade sempre.

L’inclusione non è un traguardo, ma una direzione verso cui camminare insieme. Non sarà mai perfetta, ma può essere autentica. E ogni volta che un bambino si sente parte di qualcosa, ogni volta che un ragazzo scopre di avere un talento, allora sì, la scuola ha fatto centro.

Non lasciare indietro nessuno: una scelta di cuore

Parlare di inclusione non è solo parlare di scuola. È parlare di vita, di persone, di futuro. Perché ogni bambino che oggi si sente accolto, valorizzato, capito, sarà domani un adulto più sicuro, più sereno, più capace di dare a sua volta valore agli altri.

I Bisogni Educativi Speciali ci ricordano una cosa semplice e potente: ognuno di noi ha bisogno di essere visto per ciò che è, non per ciò che manca. E la scuola, con tutti i suoi limiti, ha il dono – e la responsabilità – di essere il primo luogo dove questa visione può diventare reale.

L’inclusione non è mai un gesto individuale. È una scelta collettiva, un atto quotidiano di giustizia e di cura. Non si fa solo con le leggi o con i progetti, ma soprattutto con le relazioni: quelle autentiche, costruite giorno dopo giorno, anche tra mille difficoltà. È nel gesto di un insegnante che si ferma a spiegare per la terza volta. In un compagno che condivide il proprio quaderno. In un dirigente che ascolta, prima di decidere.

Oggi più che mai, in un mondo che corre e spesso esclude, la scuola ha il compito prezioso di rallentare e accogliere. Di essere quel luogo dove ognuno possa sentirsi a casa, anche solo per un’ora. Di restituire dignità a chi si è sentito invisibile. Di dire, senza tante parole: “Tu vali. Qui con noi, tu conti.”

Questa non è retorica. È pedagogia vera, fatta di volti, di mani, di sguardi. È il senso più profondo dell’educare: non portare tutti allo stesso traguardo, ma accompagnare ciascuno nel proprio viaggio.

E se ogni giorno, in ogni scuola, anche solo un bambino si sentirà accolto un po’ di più… allora sì, staremo costruendo un mondo migliore. Un passo alla volta. Insieme.

 

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Area Design e Arti Visive: lauree in design, moda e arti applicate

C’è chi disegna scarpe da ginnastica e chi progetta un sito web pensando a come lo userai con le dita. Chi crea un abito partendo da una sensazione, e chi studia le forme di una lampada come fossero quelle di un corpo umano. Se ti affascina questo mondo fatto di idee che diventano oggetti, immagini, spazi, forse è il caso di capire meglio cosa offre davvero il panorama formativo in design, moda e arti applicate. Non è solo questione di talento: è anche una faccenda di scelte concrete, di percorsi da costruire con pazienza, di contaminazioni tra discipline.

Tecnici professionali
Istituti Professionali: imparare un mestiere, costruirsi un futuro

A tredici o quattordici anni, scegliere che scuola fare dopo le medie può sembrare un salto nel vuoto. C’è chi ha già le idee chiare e chi ancora no, ed è normale. Ma tra le tante strade possibili, ce n’è una che spesso viene sottovalutata, e invece merita di essere raccontata per quello che è: concreta, ricca di possibilità, capace di aprire porte subito dopo il diploma ma anche di accompagnarti più lontano. È quella degli Istituti Professionali.