Che cosa sono le prove INVALSI e come si sono evolute?
Le prove INVALSI prendono il nome dall’ente che le elabora, l’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione (INVALSI). Questo istituto pubblico di ricerca è stato istituito nel 1999, raccogliendo l’eredità del Centro Europeo dell’Educazione (CEDE), con il compito di valutare «l’efficienza e l’efficacia del sistema di istruzione nel suo complesso e […] ove opportuno anche per singola istituzione scolastica, inquadrando la valutazione nazionale nel contesto internazionale». In altre parole, sin dalla sua nascita all’INVALSI è stata affidata la missione di monitorare periodicamente il sistema scolastico italiano, attraverso rilevazioni standardizzate sulle conoscenze e abilità degli studenti.
Dopo alcune sperimentazioni iniziate nei primi anni 2000, le prime prove INVALSI a livello nazionale si sono svolte nell’anno scolastico 2005-2006 per Italiano e Matematica. Negli anni successivi, la normativa ha gradualmente esteso e modificato il campo d’azione di queste prove. Un momento di svolta è stato il 2007, quando una legge ha introdotto una “Prova nazionale” standardizzata di Italiano e Matematica all’interno dell’esame di terza media (conosciuto anche come esame di Stato di fine primo ciclo). Questo ha reso di fatto obbligatoria la partecipazione alle prove INVALSI a livello di scuola media, integrandole nel percorso di valutazione conclusivo. In seguito, dal 2010 in poi, le rilevazioni INVALSI sono state somministrate su base annuale anche in altri livelli scolastici (scuola primaria e secondaria superiore), con lo scopo dichiarato di monitorare la qualità del sistema educativo e promuoverne il miglioramento.
Un’altra tappa cruciale si è avuta con la riforma introdotta dal Decreto Legislativo 62/2017, che ha ridisegnato il sistema di esami e valutazioni. Dal 2018 le prove INVALSI di terza media non fanno più parte del voto d’esame, ma diventano un requisito obbligatorio per l’ammissione all’esame finale. In altre parole, gli studenti di terza media devono sostenere i test INVALSI per poter accedere all’esame di Stato, ma i risultati dei test non influenzano il punteggio finale dell’esame. Contestualmente, sempre dal 2018, le prove INVALSI si sono arricchite con l’introduzione dell’Inglese (lettura e ascolto) oltre a Italiano e Matematica per la quinta elementare e la terza media. Inoltre, la modalità di somministrazione è stata innovata: se nelle classi della primaria i test avvengono ancora in formato cartaceo, alle medie e superiori sono svolti al computer (Computer Based Testing) e i risultati trasmessi telematicamente. Dal 2019, le rilevazioni sono state estese anche all’ultimo anno delle superiori (classe quinta superiore, “grado 13”), completando così il quadro di monitoraggio su tutto il percorso scolastico.
Riassumendo, oggi le prove INVALSI coprono momenti chiave di ogni ciclo di studi: seconda e quinta elementare, terza media, seconda superiore e quinto superiore. In ciascuno di questi snodi vengono testate competenze considerate fondamentali in Italiano (lettura e grammatica), Matematica (problem solving, competenze numeriche) e Inglese (reading e listening) – quest’ultima materia aggiunta più di recente. I risultati non sono espressi in voti scolastici, ma in livelli o punteggi standard, e servono principalmente a fotografare l’andamento generale degli apprendimenti in modo oggettivo e comparabile nel tempo e tra diverse aree geografiche. L’idea di fondo è infatti quella di misurare alcuni traguardi di apprendimento che dovrebbero essere comuni a tutti gli studenti italiani, fornendo dati utili per valutare e (nelle intenzioni) migliorare il sistema educativo. Le rilevazioni INVALSI sono considerate “attività ordinarie d’istituto” e i loro esiti dovrebbero contribuire ai processi di autovalutazione delle scuole, offrendo strumenti per il miglioramento dell’azione didattica
Va notato infine come la collocazione istituzionale delle prove INVALSI sia cambiata: in passato sono state oggetto di accese discussioni sul fatto di inserirle o meno negli esami finali. Come detto, per alcuni anni la prova INVALSI di italiano e matematica è stata parte integrante dell’esame di terza media (con un peso nel voto finale). Oggi invece la scelta è stata di tenerle esterne alla valutazione individuale degli studenti, pur obbligandone lo svolgimento. Questa soluzione intende usare i test come strumento di valutazione di sistema, più che come esame per il singolo allievo. Tuttavia, come vedremo, proprio questa caratteristica genera dibattiti sulla reale motivazione degli studenti a svolgerle e sul significato dei risultati ottenuti.
I risultati INVALSI 2025 nella scuola secondaria di primo grado
Nel 2025 le prove INVALSI hanno coinvolto, nella scuola secondaria di primo grado (scuola media, classi terze), oltre 27.000 classi su tutto il territorio nazionale. I dati emersi dal Rapporto Nazionale INVALSI 2025 presentano un quadro sfaccettato (“in chiaroscuro” lo ha definito Orizzonte Scuola) fatto di stabilità in alcune aree, lievi flessioni in altre e significativi progressi altrove. In particolare, per la terza media si registrano risultati stabili in Italiano e Matematica, mentre notevoli miglioramenti in Inglese rispetto agli anni precedenti. Vediamo più nel dettaglio le tre discipline.
Italiano: circa il 59% degli studenti di terza media nel 2025 raggiunge almeno il livello “base” di competenza in italiano (la soglia considerata accettabile), un dato sostanzialmente invariato rispetto all’anno precedente (era il 60% nel 2024). Si osserva però un lento indebolimento nel medio-lungo periodo: rispetto a qualche anno fa il livello medio di padronanza della lingua italiana mostra una lieve flessione, un fenomeno che – come nota INVALSI – si inserisce in una tendenza di lungo periodo comune a molti Paesi occidentali. In altre parole, comprensione del testo e capacità linguistiche degli adolescenti italiani restano stabili su base annua, ma evidenziano un trend leggermente calante se paragonati a una decina di anni fa. Un elemento positivo è che la maggior parte degli studenti (quasi 6 su 10) è in grado di comprendere testi e padroneggiare la lingua almeno ai livelli minimi richiesti, ma resta il fatto che circa il 40% dei ragazzi di terza media non raggiunge neppure questa soglia di competenza in italiano.
Matematica: anche in matematica il dato nazionale per la terza media nel 2025 rimane stabile, con circa il 56% degli studenti che raggiunge il livello base (invariato negli ultimi anni). A differenza dell’italiano, qui non si riscontra alcuna flessione recente: il risultato medio di matematica è pressoché identico a quello osservato dal 2021 in poi. Tuttavia, la matematica continua a rappresentare un’area critica, poiché significa che quasi uno studente su due termina la terza media senza aver acquisito competenze matematiche ritenute adeguate. Un dettaglio interessante messo in luce dal rapporto è una certa polarizzazione dei risultati in matematica: nelle regioni dove gli esiti medi sono più alti si nota una forbice ampia tra studenti “eccellenti” e studenti “in difficoltà”. Ciò suggerisce che in alcune zone d’Italia c’è un gruppo di ragazzi molto bravi in matematica, ma convive con una quota non trascurabile di ragazzi con gravi lacune, mentre sarebbe auspicabile allargare la base degli studenti con buoni risultati. Nel complesso, il messaggio degli esperti è che un sistema equo dovrebbe puntare ad alzare i risultati medi riducendo al tempo stesso le differenze tra i più bravi e i più fragili.
Inglese: il fronte più incoraggiante è quello dell’inglese. Per la prima volta dall’introduzione di questa materia nelle prove INVALSI (2018), si registra un miglioramento generalizzato e il raggiungimento di traguardi significativi. Nel 2025, l’83% degli studenti di terza media raggiunge il livello A2 del Quadro Comune Europeo di Riferimento (QCER) nella prova di reading (lettura), e il 70% raggiunge il livello A2 nella prova di listening (ascolto). Si tratta di percentuali in crescita costante: rispetto al 2018, il dato del reading è aumentato di 9 punti percentuali, mentre quello del listening addirittura di 16 punti. In altre parole, oggi la stragrande maggioranza degli studenti di terza media possiede una comprensione scritta dell’inglese almeno di livello A2, e circa 7 su 10 comprendono un testo orale in inglese di base – un risultato decisamente migliore di qualche anno fa. Vale la pena sottolineare che, secondo il rapporto, «per la prima volta dal 2018, almeno la metà degli studenti raggiunge il livello A2 in entrambe le competenze [inglesi] in tutto il territorio nazionale». Questo significa che il miglioramento in inglese è esteso a tutte le aree del Paese, anche quelle tradizionalmente più indietro, e rappresenta dunque una buona notizia. Un dato curioso emerso per l’inglese è che gli studenti di origine immigrata ottengono in media risultati più elevati dei compagni autoctoni, in particolare nella prova di ascolto. Le ragioni non sono immediatamente chiare (potrebbe trattarsi di una maggiore esposizione a contesti multilingue o a media in lingua inglese), ma il fenomeno è segnalato come “singolarità” nel rapporto.
Divari territoriali: Nord e Sud a confronto
Analizzando i dati 2025, emergono con chiarezza le marcate differenze territoriali negli apprendimenti, confermando un trend purtroppo noto da tempo: gli studenti del Nord in media conseguono risultati significativamente migliori rispetto a quelli del Sud, specialmente in matematica. Nel Centro-Nord circa il 62% degli studenti di terza media raggiunge livelli di competenza almeno sufficienti nelle materie fondamentali, mentre nel Mezzogiorno (Sud e Isole) questa quota scende a meno della metà. Il divario è particolarmente accentuato in matematica: nelle regioni del Sud e Isole soltanto 4 studenti su 10 terminano il primo ciclo con competenze matematiche adeguate, mentre nel Nord la percentuale supera il 60%. In altre parole, un dato intorno al 40% di studenti competenti in matematica al Sud contro oltre il 60% al Nord disegna uno squilibrio territoriale davvero netto. Anche in italiano si riscontra una forbice simile: ad esempio, nel 2025 in Sicilia e Sardegna meno della metà degli allievi di terza media raggiunge la soglia base in italiano (attorno al 49%), mentre in molte regioni del Nord-Ovest e Nord-Est la quota supera il 60%.
Le Isole risultano spesso fanalino di coda nelle statistiche INVALSI, mentre le regioni del Nord-Est figurano ai vertici. Va detto che questo gap Nord-Sud non è una novità dell’ultimo anno, anzi rappresenta una costante delle rilevazioni nazionali e internazionali: tuttavia, resta “molto ampio” e preoccupante anche nel 2025, segnalando la necessità di interventi mirati per colmare il divario.
Differenze territoriali nei risultati INVALSI 2025 di terza media. I grafici mostrano la percentuale di studenti che raggiungono il livello base in Italiano e Matematica (in alto) e il livello A2 in Inglese reading/listening (in basso) nelle diverse macro-aree: Nord Ovest, Nord Est, Centro, Sud e Isole. Si nota come il Centro-Nord viaggi su valori medi attorno o superiori al 60%, mentre il Sud e soprattutto le Isole presentino percentuali ben più basse (nell’ordine del 40-50% in matematica). Anche per l’inglese permangono differenze, specie nell’ascolto, ma almeno metà degli studenti del Sud raggiunge comunque il livello A2.
Un aspetto importante del divario territoriale è che esso non si manifesta in modo evidente nei primi anni di scuola, ma si accentua con il proseguire degli studi. Dai dati nazionali risulta che in seconda elementare le differenze tra bambini di diverse regioni sono minime; il gap inizia a farsi visibile in quinta elementare e diventa ampio alle medie, per poi acutizzarsi ulteriormente alle superiori. Questo suggerisce che il contesto socio-economico e l’offerta formativa locale abbiano un impatto cumulativo: man mano che gli studenti crescono, le scuole di aree svantaggiate (tipicamente molte zone del Sud) faticano di più a garantire quei progressi che invece si riscontrano altrove. Il risultato finale a 13-14 anni – proprio ciò che misurano le prove INVALSI di terza media – è quindi una sorta di fotografia di disparità territoriali già radicate. Ad esempio, in Matematica la percentuale di ragazzi con competenze adeguate varia dal ~62% del Nord (in regioni come Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia) a circa 39-40% in regioni del Sud e Isole (come Calabria, Sicilia, Sardegna).
In Italiano si passa da valori intorno al 70% in alcune regioni del Nord a poco sotto il 50% in quelle del Sud. In Inglese, come accennato, il divario è meno drammatico in termini di quota che raggiunge il livello A2 minimo (segno che l’apprendimento base dell’inglese si sta diffondendo ovunque), ma permane soprattutto nel listening: la capacità di comprendere un testo orale in inglese ce l’ha circa 3/4 degli studenti al Nord, contro poco più della metà al Sud (circa 59-60%).
Queste differenze territoriali nei test INVALSI spesso rinfocolano il dibattito pubblico sulle cause del divario e sulla qualità della scuola nel Mezzogiorno. Ogni anno, alla pubblicazione dei risultati, i media mettono in luce la distanza tra Nord e Sud. Ad esempio, è stato fatto notare come contraltare che al Sud vi sia una percentuale molto alta di studenti che ottiene il massimo dei voti agli esami scolastici interni (ad esempio maturità con 100 e lode), mentre i test standardizzati dipingono un quadro opposto. Questa contraddizione ha portato alcuni giornali a parlare di “ribaltamento sospetto”: voti scolastici altissimi al Sud, ma competenze misurate dalle prove INVALSI molto basse. Una docente del Sud, in una lettera pubblica, ha sintetizzato così il “mistero” apparente: «Come è possibile che nel Sud Italia fioccano le lodi, quando più della metà degli studenti non è in grado di comprendere un testo di argomento astratto? Voti gonfiati? Risultati fuorvianti e non in linea con la reale preparazione dei ragazzi?».
La spiegazione più ovvia che molti danno è che probabilmente le valutazioni scolastiche interne sono più generose (se non inflazionate) in alcune zone d’Italia, mentre i test INVALSI – essendo uguali per tutti e non influenzati dal giudizio soggettivo dei docenti – mostrerebbero il reale divario di competenze. Allo stesso tempo, altri sottolineano che le prove standardizzate forniscono solo una parte del quadro: misurano infatti abilità specifiche in condizioni particolari, e non tengono conto di tutti quei fattori (contesto socio-culturale, progressi individuali, capacità non cognitive, ecc.) che incidono sul rendimento di uno studente. In questa prospettiva, i risultati INVALSI possono apparire come una “fotografia” parziale – utile, ma da interpretare con cautela – dello stato della scuola italiana.
Una fotografia parziale? Limiti e criticità delle prove INVALSI
Come abbiamo visto, i test INVALSI offrono indicatori importanti sul livello degli apprendimenti e hanno il pregio di portare alla luce problemi strutturali (ad esempio il divario Nord-Sud o il calo di competenze in matematica). La loro forza, sottolinea la scrittrice e insegnante Viola Ardone, «sta nella regolarità e nella standardizzazione», ovvero nell’essere prove uguali per tutti e somministrate con cadenza fissa. Proprio questa caratteristica permette confronti oggettivi e continui nel tempo: ad esempio, sapere che la comprensione dell’inglese è migliorata di anno in anno dal 2018 al 2025 è possibile grazie alla natura standardizzata delle rilevazioni. Allo stesso modo, senza INVALSI sarebbe difficile quantificare con precisione il gap territoriale o l’impatto di eventi come la pandemia sulle competenze di base.
Tuttavia, la stessa standardizzazione rappresenta anche il limite principale di queste prove. La scuola è infatti un ecosistema ricco di variabili: gli studenti hanno intelligenze multiple, stili di apprendimento differenti, bagagli socio-culturali eterogenei. Ridurre tutto a un questionario a risposte chiuse rischia di tradurre in numeri solo una parte dell’esperienza educativa, trascurando aspetti come la creatività, il pensiero critico, le competenze pratiche o relazionali.
Un test standardizzato di poche ore non può cogliere pienamente il processo di crescita e apprendimento di un ragazzo, ma ne rileva solo alcune performance specifiche. Come sintetizzano i critici, c’è il rischio di “ridurre la complessità educativa a una serie di punteggi numerici”, perdendo di vista la varietà dei processi di apprendimento e le dimensioni formative non misurabili. In altre parole, gli INVALSI offrono un istantanea utile ma bidimensionale, che semplifica una realtà molto più sfaccettata.
Un altro ordine di problemi riguarda la validità e natura dei quesiti utilizzati. Le prove INVALSI sono composte in larga parte da test a scelta multipla o risposta chiusa, soprattutto per quanto riguarda il reading e la matematica (in alcuni casi ci sono domande a risposta aperta breve, ma in misura limitata). Il pedagogista Cristiano Corsini – uno dei critici più autorevoli del sistema INVALSI – osserva che questa forma di test finisce col misurare soprattutto “la mera abilità di riconoscere, piuttosto che di costruire, le risposte esatte”, impedendo agli studenti di esprimere ragionamenti articolati o valutazioni personali su ciò che hanno letto.
In pratica, di fronte a un testo, le domande a scelta multipla tendono a verificare se lo studente sa individuare la risposta corretta tra alternative date, ma non gli permettono di elaborare una propria risposta o una riflessione originale. Ciò comporta un limite intrinseco: “le prove INVALSI di comprensione della lettura sin qui prodotte paiono lontane dall’obiettivo” di testare competenze profonde, perché sono “costrette […] sul letto di Procuste di un’accountability” che privilegia la facile misurazione a scapito della ricchezza delle competenze. La metafora mitologica del “letto di Procuste” utilizzata da Corsini rende l’idea di come i test abbiano incasellato l’apprendimento entro forme rigide e predeterminate, sacrificando aspetti importanti dell’abilità di lettura (come l’inferenza, la capacità di collegare testi al contesto, il senso critico) che non trovano spazio in domande chiuse.
Questo è un problema di validità di contenuto: il test finisce per misurare solo ciò che è facile misurare (es. nozioni o riconoscimento di informazioni esplicite nel testo) e non ciò che sarebbe davvero importante (es. capacità di argomentare, di sintetizzare, di produrre idee a partire da un testo). Di conseguenza, i risultati possono essere fuorvianti sul reale livello di competenza: uno studente può scegliere le opzioni corrette senza aver davvero compreso in profondità un brano, oppure al contrario potrebbe avere buone idee ma non riuscire a esprimerle perché il formato non glielo consente.
Queste osservazioni rientrano in una critica più ampia alla “cultura della valutazione” che si è diffusa negli ultimi decenni in ambito scolastico. In molti Paesi (sull’onda di modelli anglosassoni e delle indagini internazionali tipo OCSE-PISA) si è affermata l’idea che occorra misurare quantitativamente gli apprendimenti per poter poi migliorare il sistema educativo. In Italia, l’INVALSI è figlio di questa stagione: è nato anche perché alla fine degli anni ’90 i risultati degli studenti italiani nelle indagini internazionali erano preoccupanti (penso agli shock dei primi rapporti PISA su lettura e matematica).
Dunque l’intento originario è condivisibile: capire dove la scuola non funziona, per poter correre ai ripari. Tuttavia, secondo Corsini e altri pedagogisti critici, c’è stata una deriva “efficientista” e aziendalistica nell’applicazione di questi strumenti valutativi. Invece di usarli come indicatori per attivare risorse e strategie di miglioramento, si è finito spesso per utilizzarli in ottica di “accountability”, ovvero di pura responsabilizzazione/colpevolizzazione di scuole, docenti e territori.
“Da anni è in atto una distorsione […] consistente nell’applicare la valutazione degli apprendimenti come misura dell’efficacia/efficienza del sistema scuola” scrive Corsini, ricordando che in realtà un singolo test standardizzato «non può dare informazioni sul singolo alunno» ed è pensato per valutare il sistema nel suo complesso. Quando però quei numeri vengono letti con la lente dell’accountability, scatta la ricerca del colpevole dei risultati bassi: la tal scuola, la tal regione, i docenti meridionali “fannulloni”, ecc. Si perde di vista, in questo meccanismo, l’obiettivo del miglioramento. «Questa nuova cultura valutativa […] tende a ratificare esiti e ad attribuire meriti o colpe, laddove l’indicazione di possibili azioni utili […] è la funzione di ogni compiuto processo valutativo» osserva Corsini. In sostanza, stiamo attenti: i dati dovrebbero servire a capire come intervenire (ad esempio investendo di più dove ci sono carenze, o cambiando metodi didattici), non a stilare classifiche di buoni e cattivi e poi fermarsi lì. Se invece i numeri vengono usati per “ratificare” uno status quo – premiando i “migliori” e puntando il dito contro i “peggiori” – senza poi accompagnarli con un serio piano di azione, la valutazione perde il suo senso formativo e diventa solo un esercizio punitivo o celebrativo.
Il rischio, sottolineato da molti, è che in un sistema scolastico impostato fortemente su queste logiche di risultato, gli attori coinvolti reagiscano in modo non sempre virtuoso. Un esempio è il fenomeno del “teaching to the test”: sapendo che le prove standardizzate sono monitorate (e a volte pubblicizzate dai media) e possono essere usate per giudicare scuole e dirigenti, c’è la tentazione per gli insegnanti e le istituzioni di orientare la didattica alla preparazione dei test. Negli Stati Uniti e altrove è un problema noto: quando i punteggi dei test diventano l’obiettivo numero uno, si rischia di sacrificare porzioni importanti del curricolo che non rientrano nelle prove, riducendo l’insegnamento a un addestramento su esercizi simili a quelli d’esame. Anche in Italia alcuni segnalano questa tendenza, sebbene mitigata dal fatto che – come detto – i risultati INVALSI non hanno un impatto diretto sulle carriere degli studenti.
Proprio la assenza di conseguenze individuali è un’arma a doppio taglio: da un lato evita la pressione sugli alunni (i test INVALSI ufficialmente non contano per la pagella o per l’ammissione se non come requisito formale), dall’altro però fa sì che molti studenti li vivano con scarsa motivazione. In alcune scuole si sono verificati casi di boicottaggio o di disinteresse: ragazzi che consegnano in bianco o rispondono a caso perché sanno che il loro futuro non dipende da quei risultati. Ciò ovviamente falserebbe i dati, restituendo – come si diceva – una fotografia distorta. Alcuni aneddoti riportati anche da testate specializzate riferiscono di docenti che addirittura sconsigliano agli studenti di impegnarsi troppo nei test, considerandoli “fonti di ansia” inutili. Per fortuna sono episodi minoritari, ma rendono l’idea di un rapporto non sereno di parte della scuola con questo strumento.
Un ultimo punto critico riguarda l’uso dei risultati INVALSI nel valutare i singoli studenti. Ufficialmente, come detto, i punteggi non entrano nei voti individuali. Tuttavia, dal 2018 in terza media e ora anche all’esame di maturità, agli studenti viene rilasciata una certificazione delle competenze (soprattutto in inglese, con il livello QCER raggiunto in reading e listening). Questo ha aperto la strada all’ipotesi di utilizzare i risultati INVALSI persino per l’accesso all’università o per arricchire il curriculum dello studente. Corsini e altri lo considerano “un grave errore scientifico ed educativo”: i test INVALSI, per costruzione, hanno una attendibilità statistica su larga scala, ma non sono pensati per misurare con precisione il singolo – tanto che la misura di errore individuale è piuttosto ampia. Usarli per “bollare” uno studente come competente o meno (eccellente, fragileecc) sarebbe quindi improprio e iniquo. L’INVALSI stesso è consapevole di ciò e infatti raccomanda di leggere i dati in termini aggregati.
Il presidente INVALSI Roberto Ricci, di fronte alle polemiche, ha dichiarato provocatoriamente: “A che servono i dati INVALSI se poi la scuola non cambia?”, paragonando il ruolo dell’istituto a quello dell’ISTAT: così come l’ISTAT rileva il tasso di disoccupazione ma non può da solo creare posti di lavoro, l’INVALSI fotografa la realtà scolastica ma non ha il compito (né il potere) di modificarla direttamente.
Ed è proprio su questo punto che si dovrebbe concentrare il dibattito pubblico: come utilizzare al meglio i dati delle prove INVALSI per far crescere la scuola italiana? I risultati 2025 mostrano alcuni segnali positivi – ad esempio la diminuzione della dispersione scolastica al minimo storico del 10,2% e i progressi in inglese – accanto a nodi irrisolti come il persistente divario territoriale e la quota ancora alta di studenti con competenze di base insufficienti. Gli strumenti di valutazione standardizzata sono utili se diventano punto di partenza per investimenti e riforme mirate: ad esempio, alla luce dei dati, diversi esperti suggeriscono di potenziare l’insegnamento della matematica (specie al Sud) con risorse aggiuntive e formazione docente, prima di continuare a misurare e rimisurare una carenza già nota. Allo stesso tempo, occorre ripensare ciò che vogliamo davvero valutare a scuola: se puntiamo a formare cittadini creativi, critici e competenti in senso ampio, non possiamo affidarci solo a test a crocette. Forse la sfida futura sarà bilanciare l’equità e oggettività delle prove INVALSI con forme di valutazione più formative e inclusive, capaci di cogliere il progresso di ciascuno e di valorizzare le diverse eccellenze.
In conclusione, le prove INVALSI sono uno specchio parziale della nostra scuola: riflettono alcuni aspetti con chiarezza (dove i ragazzi leggono meglio, dove faticano in matematica, come migliora l’inglese), ma non mostrano tutto. Come ogni specchio, possono deformare la realtà se non si considera l’angolazione da cui si guarda. Il rischio, come ammonisce Viola Ardone, è di scambiare la mappa per il territorio: “La forza di queste prove sta nella standardizzazione, ma è anche il loro limite”.
Per evitare che una giusta attenzione alla valutazione degeneri in una “cultura del punteggio” fine a sé stessa, è importante che i dati INVALSI vengano discussi criticamente, calati nel contesto e usati come leva di miglioramento e non come semplice pagella del sistema. Solo così quella fotografia un po’ sbiadita potrà trasformarsi in un’immagine più nitida di una scuola che impara dai propri errori e cresce, col sostegno di tutta la comunità educativa.
Video – Approfondimento
Per chi volesse ascoltare dalla viva voce del professor Cristiano Corsini alcune di queste riflessioni critiche sulle prove INVALSI, segnaliamo questa intervista di qualche anno fa disponibile su YouTube, ma ancora molto attuale considerando che le questioni e i problemi aperti non sono cambiati molto. Corsini commenta i dati e discute di come le prove standardizzate vadano interpretate e dei rischi di cui abbiamo parlato (non sono “prove di competenza” in senso stretto, dice, ma offrono spunti su cui ragionare). Un contributo utile per proseguire il dibattito in modo informato e consapevole.