Maturità e voti: il caso Favaretto apre un dibattito necessario

Durante gli esami di maturità 2025, uno studente del liceo scientifico Fermi di Padova ha scelto di non sostenere la prova orale. Si chiama Gianmaria Favaretto, ha 19 anni, e la sua motivazione è diventata virale: «Il sistema dei voti è ingiusto»

di Gabriele Capasso
8 luglio 2025
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Come si può prendere il diploma senza fare l’orale?

La maturità italiana si basa su un sistema a 100 punti: fino a 40 punti sono assegnati come crediti scolastici (ossia il rendimento degli ultimi tre anni), fino a 20 per ciascuna delle due prove scritte e fino a 20 per il colloquio orale. La soglia minima per il diploma è 60.

Favaretto aveva già 62 punti: 31 di credito scolastico, 17 nella prima prova scritta, 14 nella seconda. Formalmente era quindi già oltre la soglia necessaria. Tuttavia, la legge prevede che l’orale sia obbligatorio. La sua protesta avrebbe potuto invalidare l’intero esame, ma la commissione lo ha invitato a partecipare almeno con uno scambio minimo, come riportato nel resoconto del Corriere del Veneto. Gli è stato chiesto di elencare le materie che aveva preferito: ha risposto con poche parole. Gli è stato assegnato il punteggio minimo (3 punti), raggiungendo così i 65/100 e ottenendo il diploma.

Coraggio o furbizia? Le reazioni

La dirigente scolastica, Tiziana Peruzzo, ha espresso perplessità sull’interpretazione mediatica della vicenda. Secondo la preside, non si è trattato di un gesto coraggioso ma calcolato: lo studente ha aspettato di sapere con certezza di essere promosso prima di inscenare la protesta. «Per me è una scelta di comodo», ha dichiarato in un’intervista al Corriere.

La questione resta aperta: si tratta davvero di una scorciatoia? O il gesto di Favaretto ha avuto il merito di sollevare un problema reale del sistema scolastico?

Precedenti simili: Venezia, 2024

Non è la prima volta che l’esame di maturità diventa luogo di protesta. Nel 2024, tre studentesse del Liceo Foscarini di Venezia avevano scelto di non rispondere alle domande dell’orale, leggendo invece dichiarazioni contro il sistema di valutazione. Avevano ottenuto voti bassissimi alla seconda prova di greco, ritenendoli umilianti e ingiusti, nonostante una media alta durante l’anno. Hanno comunque partecipato all’orale formalmente, e quindi non sono state bocciate.

Una di loro ha dichiarato al Fatto Quotidiano: «Preferisco tenermi un 60 piuttosto che essere valutata con un voto che non definisce chi sono io come persona». Il caso è raccontato in dettaglio in questo articolo.

Cosa ci dicono questi episodi?

Le proteste dei maturandi di Padova e Venezia non sono solo gesti individuali: portano alla luce un disagio profondo e diffuso nei confronti della valutazione numerica. Da un lato, i voti sono ritenuti strumento di selezione e meritocrazia; dall’altro, sempre più studenti li vivono come etichettature rigide, incapaci di rappresentare davvero le loro competenze o la loro crescita.

Il dibattito sulla meritocrazia è tutt’altro che semplice. Come ha scritto il Nobel Amartya Sen: «L’idea di meritocrazia ha molti meriti, ma la chiarezza non è tra questi». A scuola, il concetto di “merito” si scontra con fattori strutturali: diseguaglianze, stili di apprendimento diversi, difficoltà personali, standard valutativi non omogenei.

Un altro elemento emerso dalle parole della preside Peruzzo è la perdita di senso dell’esame di maturità. Secondo lei, da quando i test universitari sono anticipati, molti studenti vivono l’esame di Stato come un inutile passaggio burocratico, e non più come momento formativo e di bilancio.

Ripensare il sistema di valutazione

La scuola primaria ha già eliminato i voti numerici, sostituendoli con giudizi descrittivi. Ma alle superiori, e in particolare alla maturità, il voto continua a essere il centro del sistema. Il rischio è che tutto si riduca a una gara a punteggi dove il contesto, l’evoluzione personale, le soft skill e l’impegno non quantificabile restano invisibili.

Esistono alternative? In altri Paesi, e in alcune sperimentazioni italiane, si affiancano ai voti sistemi di valutazione formativa, portfolio, rubriche descrittive. Alcuni pedagogisti, come Franco Lorenzoni, invitano a riscoprire il valore narrativo della valutazione, come occasione per comprendere e far crescere.

Una scuola che seleziona o che accompagna?

Il caso Favaretto apre dunque una domanda scomoda ma essenziale: la scuola deve selezionare o accompagnare? E ancora: selezionare in base a che cosa? Solo al rendimento misurabile con voti? O anche alla capacità di migliorarsi, di costruire senso, di superare ostacoli?

Il rischio è che la “meritocrazia” si trasformi in un’ideologia dei più forti, dove chi parte avvantaggiato continua a vincere, e chi fatica resta indietro, a prescindere dalle potenzialità.

Il gesto di Gianmaria Favaretto non va liquidato con un giudizio frettoloso. È una provocazione che ci costringe a interrogarci sul sistema. I voti sono davvero una misura di maturità? O solo un’abitudine difficile da scardinare?

Aprire il dibattito significa ascoltare le domande dei ragazzi, riconoscere il disagio, e forse cominciare a cambiare. Perché l’obiettivo dell’orientamento e della scuola non può essere quello di classificare, ma di far crescere. Anche quando questo significa rimettere in discussione le nostre certezze più consolidate.

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